I giorni scorsi saranno ricordati come tra i più importanti per la crisi politica che, da parecchie settimane, sta investendo il Venezuela. I fatti accaduti ai confini con Colombia e Brasile, le scelte di Maduro e la presenza sul campo degli Stati Uniti potrebbero portare presto ad una svolta nello scontro tra Juan Guaidó e il regime chavista.
Nella giornata di sabato Maduro, a causa della sua miopia e del suo sempre più evidente distacco con la realtà, ha dato ordine di bloccare gli aiuti umanitari per lo più della USAID (l’agenzia governativa statunitense per lo sviluppo internazionale) provenienti da Colombia e Brasile. I camion con i beni di prima necessità, fondamentali per un popolo ormai allo stremo e alla fame come quello venezuelano, sono stati fermati al confine e fatti tornare indietro e, in alcuni casi, sono stati addirittura dati alle fiamme dai miliziani pro regime. Tutto ciò ha provocato scontri tra i sostenitori di Maduro e quelli di Guaidó, con le forze di sicurezza regolari a fare da spettatori o a prendere le parti dei primi. Risultato: quattro morti e centinaia di feriti. Dopo questi fatti Juan Guaidó ha detto che la sua battaglia contro Maduro continuerà e che “dobbiamo tenere aperte tutte le opzioni per la liberazione della nostra patria”.
Un altro evento che merita di essere menzionato è l’avvelenamento del deputato dell’opposizione Freddy Superlano e del suo assistente Carlos José Salinas durante un cena in un ristorante della città di Cúcuta in Colombia. I due si erano recati oltreconfine proprio per cercare di fare arrivare nel Paese i camion con gli aiuti.
Intanto, la Colombia del conservatore Iván Duque Márquez ha ufficialmente riconosciuto il nuovo presidente venezuelano e proprio a Bogotà, lunedì, Juan Guaidó ha incontrato sia i rappresentanti del “gruppo di Lima” che il vicepresidente Usa Mike Pence. Il “gruppo di Lima”, organizzazione formata da alcuni Paesi (sia dell’America del Nord sia di quella del Sud, con in testa Brasile di Bolosonaro e Canada) incaricata di elaborare strategie diplomatiche adatte a mettere fine alla drammatica situazione del Venezuela, ha deciso di chiedere alla Corte penale internazionale e al Consiglio dei diritti umani dell’Onu di intervenire con urgenza, in risposta alla “violenza criminale del regime di Nicolas Maduro contro la popolazione civile”, per aver “negato il loro accesso all’assistenza internazionale, il che costituisce un crimine contro l’umanità”. Mentre il vicepresidente Usa Mike Pence, incontrando Guaidó, ha confermato il sostegno forte e determinato degli Stati Uniti ai suoi sforzi per dare al Venezuela un futuro migliore. Washington ha anche annunciato, oltre ad altre sanzioni economiche nei confronti di Maduro e dei suoi sostenitori, alcune misure a sostegno dei Paesi vicini al Venezuela che stanno affrontando la crisi migratoria causata dalle politiche del regime.
Lunedì scorso nessuno ha parlato direttamente della possibilità di un intervento militare, ma questa è certamente un’opzione che rimane sul tavolo. In questo senso va sottolineata la presenza in Colombia, da alcuni giorni, di Elliott Abrams, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Venezuela nominato dal segretario di stato Mike Pompeo il 25 gennaio. Sicuramente un personaggio dal passato un po’ controverso, ma non si può certo negare che, per carriera ed esperienza, sia una delle persone più adatte per provare a risolvere l’intricata matassa venezuelana.
I fatti del weekend hanno dimostrato l’ostinazione di Nicolas Maduro, intenzionato a non fare passi indietro. Cosa grave non solo per il semplice fatto che la fine del suo regime dittatoriale e marxista pare sempre più chiara e vicina, ma anche perché la sua uscita di scena sarebbe un bene per suoi concittadini e la loro salute. A questo punto, tutto l’Occidente, libero, democratico, atlantista, e tutti i suoi esponenti farebbero bene a prendere una posizione netta a favore di Juan Guaidó, oltre la semplice richiesta di nuove elezioni.