Il sistema Putin non è sufficientemente autoritario da poter prescindere da un certo livello di approvazione; la società russa non è sufficientemente sottomessa da poter accettare un’obbedienza cieca alle direttive del potere costituito… In un quadro geopolitico in evoluzione, gli interessi dell’Occidente e della Russia potrebbero tornare a coincidere in un tempo non troppo lontano: la Cina incombe
Non è il ventennale che Putin sperava. Il 7 maggio dell’anno 2000 l’attuale presidente russo assumeva ufficialmente l’incarico che da pochi mesi ricopriva ad interim, dopo la prima (e unica) campagna elettorale moderna nella storia del Paese. Il 7 maggio dell’anno 2020 l’immagine del politico che più di ogni altro ha incarnato il desiderio di riscatto della Russia dopo il fallimento sovietico è quella di un uomo solo al comando. L’impatto del coronavirus cinese non ha risparmiato il gigantesco vicino: mentre scrivo, i dati ufficiali parlano di oltre 210.000 casi confermati e 1.900 morti. L’emergenza sanitaria ha provocato la cancellazione della parata militare prevista il 9 maggio per celebrare i settantacinque anni dalla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, la Grande Guerra Patriottica nella versione nazionalista, privando il putinismo della punta di diamante della sua retorica propagandistica. Che il bielorusso Lukashenko l’abbia invece mantenuta, con sprezzo del pericolo e invitando gli altri capi di stato a dimostrare la loro dedizione patriottica, aggiunge al danno la beffa.
A metà gennaio Putin annunciava a sorpresa una riforma costituzionale destinata a ridisegnare le strutture di governo del Paese. In quella decisione alcuni osservatori videro la volontà di lasciare in eredità ai suoi successori un’architettura istituzionale compiuta dopo la fine del suo mandato. Ma il 10 marzo alla Duma si assisteva a una rappresentazione degna del migliore (o peggiore, a seconda) teatro russo: davanti al Parlamento riunito per esaminare le nuove misure, l’ex astronauta Valentina Tereshkova proponeva la possibilità di un rinnovo presidenziale per altri due mandati, in pratica fino al 2036. Ovviamente si trattava di una coreografia orchestrata con il Cremlino, tanto che Putin raggiungeva immediatamente la camera legislativa per appoggiare l’emendamento che lo perpetuava al vertice dello Stato. La mossa lasciava sconcertati perfino i cremlinologi più benevoli, denotando chiaramente il carattere personalistico dell’annunciata riforma, che avrebbe dovuto essere approvata con referendum popolare il 22 aprile. Il coronavirus, però, ha fatto saltare anche questo appuntamento con la storia. Anche se la consultazione dovrebbe svolgersi nei prossimi mesi e il suo esito favorevole è scontato, l’ultimo sondaggio dell’Istituto Levada assegna a Putin un indice di gradimento del 59 per cento, il più basso dal settembre 1999. In un Paese in cui il risultato elettorale è pesantemente condizionato dalle dinamiche del potere, questo dato assume una gran rilevanza nel fotografare gli umori della nazione: quello che in qualsiasi democrazia occidentale sarebbe considerato un consenso massivo, in Russia lascia intravedere una certa disaffezione verso un presidente che, in piena emergenza sanitaria, appare più debole e isolato del previsto.
Le ultime settimane hanno confermato questa sensazione. Il protagonismo nella risposta al Covid-19 è stato assunto dai funzionari locali, a cui un Putin insolitamente defilato ha di fatto delegato l’adozione e l’applicazione delle misure di contenimento. Significativo il ruolo del sindaco di Mosca, Sergey Sobyanin, che – agendo come un primo ministro ombra in assenza del convalescente Mishustin – ha deciso di estendere fino a fine maggio il lockdown nella capitale, arrivando a contraddire le cifre ufficiali comunicate dal governo: secondo lui non sarebbero 210.000 in totale ma più di 300.000 i contagiati nella sola Mosca. Sobyanin appartiene al gruppo dei tecnocrati politici, il settore più pragmatico e meno ideologico nella struttura di potere, contrapposto pertanto ai custodi dell’ortodossia putinista nella sua versione più ostile al liberalismo occidentale, i siloviki (provenienti in gran parte dagli apparati di sicurezza e dagli ambienti militari). È stato proprio Putin a promuovere i tecnocrati a posizioni di peso nella sua strategia di de-politicizzazione della società russa intrapresa negli ultimi anni. Oggi, mentre l’influenza di personaggi come Surkov (l’ideologo del concetto di “democrazia sovrana“) è del tutto secondaria, sono in rialzo le azioni di Kiriyenko (vicecapo dello staff presidenziale con competenze di coordinamento delle politiche regionali), di Elvira Niabiullina (governatore della Banca Centrale), del ministro delle finanze Siluanov, di Andrey Belousov (economista e attuale vice-premier) e di Sergei Shoigu (ministro della difesa). Se non c’è motivo di dubitare della fedeltà di funzionari di primo piano che devono la loro ascesa al presidente, è certo che questo gruppo di “modernizzatori” sa di rappresentare una potenziale alternativa alla sclerotizzazione che la proroga del mandato presidenziale oltre il 2024 implicherebbe. In quest’ottica, la decisione di Putin di aprire le porte alla sua riconferma, invece di rafforzarne la posizione, l’ha paradossalmente debilitata: è come se quel misto di riconoscenza e di convenienza che teneva insieme attorno alla figura del leader le diverse componenti dello spettro politico russo, in vista della successione, si stesse gradualmente dissolvendo. La domanda è fino a che punto Putin sia cosciente di questa evoluzione e se la delega di poteri che si sta osservando nell’emergenza coronavirus sia destinata a continuare anche dopo o se, al contrario, assisteremo ad una sterzata in senso accentratore. I rischi per lui sono comunque evidenti, sia che accetti di cedere porzioni di comando sia che si arrocchi su posizioni fortemente conservatrici: nel primo caso una perdita di controllo sulle politiche domestiche con una crescente influenza di componenti eterodosse; nel secondo caso possibili atti di insubordinazione che metterebbero direttamente in discussione la sua continuità.
Dietro le quinte dell’apparato statale, spesso al di sotto, l’interminabile transizione russa prevede sempre un convitato di pietra, la cosiddetta società civile. Se in questi vent’anni i russi hanno dimostrato riconoscenza verso chi ha restituito loro una ragion d’essere dopo l’esperienza sovietica e l’incertezza del post-comunismo, Putin non può fare affidamento su una acquiescenza eterna e sulle difficoltà di un’opposizione politica che è riuscito ad addomesticare con le buone o con le cattive. La situazione economica, già incerta dopo gli anni della crescita felice, risente oggi del crollo del prezzo del petrolio e di una stagnazione dei salari reali ben al di sotto della media europea. Ma è soprattutto l’impatto del coronavirus ad alimentare i dubbi sull’efficacia di una gestione della crisi che, al vertice dello Stato, è apparsa tentennante fin dall’inizio: prima si è minimizzata la minaccia, poi si è assicurato che il Paese era pronto per affrontarla, infine si sono fornite cifre la cui credibilità è quantomeno dubbia. Per la prima volta i messaggi del Cremlino sono ambigui, incapaci di dare al Paese la sicurezza a cui era abituato, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Difficile che le missioni “umanitarie” inviate all’estero (quella italiana su tutte) possano compensare a livello di immagine i dubbi che serpeggiano all’interno, tanto è vero che, secondo il sondaggio già citato dell’Istituto Levada, il livello di approvazione della maggioranza dei governatori regionali supera quello del presidente.
Della natura del sistema politico russo avevo già trattato in un precedente articolo sempre su Atlantico. Torno qui brevemente su un aspetto che mi sembra decisivo: se Putin guarda alla Cina senza riuscire a emularla, i russi guardano a occidente senza riuscire a raggiungerlo. In questo sfasamento si gioca il futuro del Paese, soprattutto se la classe di tecnocrati politici riuscirà a colmare il divario tra un presidente sempre più distante dal popolo e un popolo che chiede una modernizzazione reale, al di là della retorica patriottica e della contrapposizione ideologica con le democrazie liberali. Il sistema Putin non è sufficientemente autoritario da poter prescindere da un certo livello di approvazione; la società russa non è sufficientemente sottomessa da poter accettare un’obbedienza cieca alle direttive del potere costituito. Mentre in Cina il ruolo degli apparati di controllo e di sicurezza permea la società a tutti i livelli e neutralizza lo sviluppo di un’opinione pubblica indipendente, in Russia assistiamo alla crescita di una società civile sempre più consapevole delle proprie prerogative. Fino a quando percepirà che le stesse possano essere in qualche modo soddisfatte dall’azione politica, sarà disposta a rinunciare a certi spazi di libertà e di protagonismo pubblico. In caso contrario, il livello di conformità a un sistema con frequenti ricadute autoritarie, ma non pienamente dispotico, sarà destinato a ridursi. Questa trasformazione è probabilmente già in corso, sottotraccia, ed è difficile che il presidente non se ne sia reso conto. Da qui il tentativo di blindarsi con una riforma costituzionale ad personam che poco servirà se non riuscirà ad adattarsi al ritmo del cambiamento.
Putin ha tempo per invertire la rotta rinunciando a perpetuarsi oltre il 2024, occupandosi di garantire una successione ordinata, promuovendo progetti di crescita delle infrastrutture del paese e riducendo la crescente dipendenza economica e politica dalla Cina. In un quadro geopolitico in evoluzione, gli interessi dell’Occidente e della Russia potrebbero tornare a coincidere in un tempo non troppo lontano: la Cina incombe non solo sull’Europa ma anche su Mosca. Vedremo se in Putin, che continua a definire Xi Jinping “il suo migliore amico“, prevarrà l’orgoglio o la ragione e soprattutto se l’Occidente sarà capace di recuperare un grande Paese che il putinismo rappresenta ma non esaurisce.