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Verso la terza legge elettorale del Pd in cinque anni: l’ennesimo mini-golpe all’italiana dei “moralisti delle istituzioni”

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Negli altri Paesi la frequenza media in cui si cambia la legge elettorale è “mai”

Leggiamo in questi giorni che il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle avrebbero raggiunto un accordo, senza coinvolgimenti dell’opposizione, per cambiare la legge elettorale in senso proporzionale.

Malgrado il maldestro tentativo di affermare che l’adeguamento del sistema di voto sia necessario a fronte della recente modifica costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari, è abbastanza manifesto che non ci troviamo in presenza di “aggiustamenti tecnici”. La verità è che Pd e M5S vogliono mettere in atto un cambiamento sostanziale della filosofia del sistema elettorale con l’obiettivo di determinare un esito elettorale profondamente diverso rispetto a quello che scaturirebbe dall’attuale legge.

Per parlare chiaro, Pd e M5S prevedono di perdere in quasi tutti i collegi uninominali previsti dal “Rosatellum” e in più vogliono evitare l’imbarazzo di doversi presentare di fronte agli elettori, per limitare i danni, in una coalizione pre-elettorale formale.

Allora cosa c’è di meglio, visti gli ultimi sondaggi, di votare con un sistema elettorale proporzionale e senza coalizioni – insomma senza nessun incentivo maggioritario, come non avveniva dal lontano 1992?

Chi conosce la storia del Partito democratico sa bene come nel tempo abbia sempre sostenuto in passato leggi elettorali con effetti maggioritari e come, quindi, la posizione di oggi altro non sia che un “puro calcolo” – una mossa della disperazione dovuta al fatto che il partito è ormai lontanissimo dai numeri degli anni d’oro di Renzi e di Veltroni.

Il fatto è che questo ennesimo progetto di “riforma” della legge elettorale rappresenta tristemente un chiaro segno dell’assoluta “disinvoltura” dei partiti nel maneggiare a loro favore aspetti delicati e cruciali dell’organizzazione democratica – e per molti versi non stupisce affatto che i protagonisti di questo ennesimo colpo di mano sul sistema di voto siano proprio quelle aree politiche che quotidianamente ostentano il maggior moralismo istituzionale e costituzionale.

Negli ultimi vent’anni abbiamo conosciuto cinque diverse leggi elettorali, il “Mattarellum”, il “Porcellum”, il “Consultellum”, l’“Italicum”, il “Rosatellum”. Il nuovissimo “Contellum” sarebbe la sesta.

Quasi ogni parlamento ha voluto lasciare un segno modificando a proprio piacere il sistema di voto, ogni volta con l’intento esplicito di far scaturire un certo esito elettorale piuttosto che un altro. Il record è stato rappresentato dalla legislatura 2013-2018 che ha varato ben due leggi elettorali dato che la prima, promulgata per attribuire una maggioranza assoluta al Pd, per i mutati equilibri, “rischiava” ormai di conferirla – almeno alla Camera – ai 5 Stelle o al centrodestra.

Lo schema è, più o meno, sempre lo stesso. Prima si accomodano gli obiettivi delle forze maggiori che si trovano, magari rocambolescamente, al governo – in questo caso Pd e M5S; e subito dopo, in una sorta di spartizione preventiva, si assicurano opportuni meccanismi, anche contorti, per garantire un “diritto di tribuna” a tutte le forze politiche minori che devono concorrere all’approvazione della riforma – nel caso attuale Italia Viva e i “cespugli”.

Ne vengono fuori quasi sempre, tra l’altro, leggi elettorali particolarmente barocche, perché risultato non di una qualche “visione”, bensì di un processo di minuziosa ingegneria legislativa che massimizzi i diversi interessi dei vari “azionisti” della riforma.

Quello che avviene in Italia è inusitato nel mondo delle democrazie avanzate. Negli altri Paesi la frequenza media in cui si cambia la legge elettorale è “mai” – perché l’invariabilità nel tempo delle regole è una condizione democratica fondamentale per assicurare la neutralità del Potere rispetto alla competizione elettorale.

E non importa se si prevede il “rischio” di un parlamento ingovernabile, né se si prefigura all’opposto il “rischio” di una maggioranza schiacciante, magari di segno opposto al governo in carica – nessuna “scusa” è buona per cambiare le regole fondamentali per il solo fatto che quanto si prospetta “non piace”.

All’estero le poche volte che si è assistito a modifiche della legge elettorale, ciò è avvenuto perché si è ritenuto che ciò rispondesse a ragioni sistemiche e non per favorire il risultato immediato più gradito al governo in carica. In questo senso è significativo che la modifica della legge elettorale sia di norma effettuata tramite referendum – cioè passando da un diretto controllo democratico che consente di evitare “creativi” colpi di mano da parte di governo e parlamento.

È il caso della nuova Zelanda che ha cambiato sistema elettorale nel 1993 attraverso un consultazione referendaria, bocciando nello stesso modo una successiva modifica nel 2011.

Dal canto loro gli elettori britannici si sono pronunciati contro l’abbandono del tradizionale first-past-the-post system nel 2011, mentre all’opposto i polacchi hanno fatto fallire un referendum per introdurre quel sistema nel 2015. Come ulteriore garanzia, in Polonia era previsto che l’eventuale cambio della legge elettorale non sarebbe entrato in vigore per le elezioni previste di lì a poco, ma al giro successivo, in modo da neutralizzare qualsiasi prospettiva di utilizzare la riforma per orientare i risultati dell’elezione.

Più recentemente, la prospettiva di dover passare per un referendum è stata determinante per far desistere il premier canadese Trudeau dal progetto di mettere mano alla materia elettorale, anche alla luce dell’esperimento rappresentato dai ben due referendum sulla riforma elettorale falliti nella provincia della Columbia Britannica.

Insomma, il concetto del ricorso del governo, come fosse routine, alla riforma elettorale come strumento per “uscire meglio” dal prossimo voto, sulla base dei sondaggi più freschi, è qualcosa di tipicamente italiano; sarebbe meglio dire di esclusivamente italiano. Quello che veramente preoccupa è che non se ne riesca a percepire la problematicità, per non dire la drammaticità dal punto di vista della nostra democrazia.

In una fase storica in cui è quanto mai frequente sentire gli establishment culturali gridare al “lupo populista” e al “rischio autoritario”, non si capisce che i sistematici “mini-golpe” sulla legge elettorale sono uno dei fattori che per davvero allontanano l’Italia dagli standard delle democrazie consolidate. Ma lo fanno con la benedizione di Sergio Mattarella che firmerebbe tranquillamente la terza “legge elettorale del Pd” in cinque anni – e quindi tutto a posto.

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