Le elezioni di domenica 4 marzo, le prima con il Rosatellum, hanno portato due grandi vincitori e due grandi sconfitti. Vediamo di seguito di chi parliamo.
I due grandi vincitori di questa tornata elettorale sono stati il Movimento 5 Stelle e la Lega. Da un lato il Movimento 5 Stelle, partito populista con un programma di governo sinistroide si è confermato come primo partito del paese con un sorprendente 32.5 per cento dei voti. Nonostante un eccellente risultato elettorale, e dando per scontato che il presidente Mattarella dia al loro leader l’incarico di trovare una maggioranza stabile in Parlamento per formare un governo, non sembra al momento che alcun partito di centrodestra o centrosinistra sia intenzionato a fare da “stampella”, e quindi da partner minoritario, ad un governo grillino.
Dall’altro lato, il secondo grande vincitore di queste elezioni è la nuova Lega “nazionale” che è diventata il primo partito della coalizione di centrodestra, facendo bottino pieno al nord e sfondando al sud con risultati impensabili qualche anno fa. Ottenendo quasi un 4 per cento in più rispetto a Forza Italia, secondo partito della coalizione, Matteo Salvini ha già annunciato che il suo partito concorrerà solo alla formazione di un governo di centrodestra, fiutando l’opportunità storica di poter rivoluzionare il centrodestra italiano proponendo un riposizionamento in Europa e spingendo sui suoi cavalli di battaglia: quali lo stop all’immigrazione e la flat tax.
Dopo aver individuato i grandi vincitori, ora concentriamoci sui grandi sconfitti di queste elezioni. Senza dubbio il centrosinistra italiano esce ridimensionato da queste elezioni, raggiungendo il suo picco storico negativo, del quale molti individuano come responsabile il leader più arrogante della storia del centrosinistra. Matteo Renzi infatti, non contento della disfatta elettorale ha annunciato le sue dimissioni parziali dalla guida del Partito Democratico, volendo attendere l’elezione dei presidenti delle due Camere per imporre la sua linea politica ai futuri gruppi parlamentari del Pd.
Come scrivevamo nelle settimane precedenti su Atlantico, la vera chiave di lettura delle elezioni è stata la proposta economica delle due maggiori forze politiche: con il centrodestra che proponendo la flat tax ha guardato al nord del paese in ripresa economica e con un Pil superiore ai livelli pre-crisi, ed il Movimento Cinque Stelle che con il salario sociale si è rivolto al sud e a quei cittadini delusi dalla crisi economica. Risultato: un paese diviso in due a livello geografico, economico e politico.
Dulcis in fundo, sarebbe superficiale non definire l’Euro il vero grande sconfitto di queste elezioni. Con oltre il 55 per cento dei partiti presenti in Parlamento che si definiscono apertamente critici verso l’Euro e l’Unione Europea, per la prima volta dopo la Brexit, le elezioni in uno stato membro sono andate così male per Bruxelles. Il disincanto mostrato dai cittadini italiani verso il progetto d’integrazione europea, e verso la moneta unica, suo più vivido esempio, sono la riprova del sentimento Euro-critico diffuso nel paese. Non sono bastate la presidenza della BCE a Mario Draghi, il ruolo di Alto Rappresentate della politica estera e di difesa UE a Federica Mogherini, e ultima in termini di tempo, la presidenza del Parlamento Europeo ad Antonio Tajani, a scalfire questo sentimento basato sulla percezione economica che i cittadini italiani hanno dell’Euro e dell’impoverimento sistematico che hanno subito. A poco è servito l’esperimento radical-chic di Bonino e compagni che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento fissata al 3 per cento e che tiene fuori dal Parlamento italiano molti personaggi pro-Soros e poco inclini a difendere l’interesse nazionale.