Vinta una battaglia, non la guerra. Le rivolte e il processo a Rittenhouse, la vera storia: in gioco l’anima dell’America

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24 agosto 2020, il diciasettenne Kyle Rittenhouse arriva a Kenosha, Wisconsin, dalla vicina Antioch, Illinois, per andare al lavoro. È un giovane che sogna un futuro come servitore dello Stato. Ha completato un corso per cadetti della polizia, un corso di vigile del fuoco juniores, e un corso di pronto soccorso. Lavora come bagnino in una locale piscina. Rittenhouse vive in Illinois con sua madre, ma l’intera sua famiglia è di Kenosha. Ci vivono suo padre, sua nonna, i suoi zii e cugini.

Ma non è un giorno come tutti gli altri: Kenosha sta attraversando anch’essa, come il resto del Paese, un’ondata di proteste e rivolte senza precedenti, nel caso della cittadina del Winsconsin scatenate dal ferimento di Jacob Blake da parte della polizia.

Il 23 agosto Jacob Blake, un uomo con precedenti per violenza domestica e abusi sessuali su minore, si presenta a casa della sua ex fidanzata. Su di lui pende un mandato di cattura. In precedenza Blake aveva aggredito sessualmente la donna, che l’aveva denunciato. Blake si impossessa delle chiavi dell’auto e ci carica forzatamente i figli della donna, che però chiama la polizia. All’arrivo della polizia Blake sta entrando nell’auto, gli agenti gli intimano di fermarsi. Blake resiste all’arresto entrando in colluttazione con uno degli agenti, il taser non lo ferma, apre lo sportello dell’auto dal lato guidatore, sul pavimento c’è un coltello, cerca di afferrarlo, uno degli agenti apre il fuoco ferendolo. Rimarrà paralizzato.

L’uso della forza verrà giudicato legittimo e gli agenti sollevati da ogni accusa di abuso di forza o autorità. Ma prima che questo possa accadere, Kenosha passerà attraverso le peggiori rivolte della sua storia.

Dopotutto è l’estate delle rivolte. Scatenate dalla morte di George Floyd a Minneapolis. Sui media, nei discorsi dei politici e degli attivisti, in discussione non è più solo il sistema giudiziario americano, ma l’intera America. L’intero sistema istituzionale, definito “sistemicamente razzista”, è sotto attacco, così come il sistema economico “ineguale”, e perfino la storia del Paese, che si vuole riscrivere. Per giunta le elezioni sono vicine, e dopo aver passato quattro anni ad attaccare Donald Trump come razzista, il mondo politico vede l’occasione per collegare le proteste alla sua presidenza.

I media minimizzano o giustificano ogni forma di protesta anche violenta. “Dove sta scritto che una protesta deve essere pacifica?”, tuona dalla Cnn Chris Cuomo, anchorman e fratello del governatore dello stato di New York. Si pubblicano articoli, e perfino libri, che difendono non solo la rivolta violenta, ma il saccheggio, visto come una forma di risarcimento per torti storici e redistribuzione della ricchezza.

La reporter del New York Times Nellie Bowles si reca a Kenosha a indagare. Parla con la gente del luogo, viene a scoprire che la parte della città che sta venendo devastata è quella più popolare e povera, fatta di commerci al dettaglio e piccole imprese. Sono queste soprattutto ad essere saccheggiate, devastate, e spesso date alle fiamme dai rivoltosi. La pubblicazione del suo articolo verrà tenuta in sospeso dal NYT fino a dopo le elezioni. Nelle parole di Nellie Bowles:

“La realtà che portò Kyle Rittenhouse nelle strade era tale da dover essere ignorata da noi reporter. A un uomo anziano venne rotta la mascella perché cercava di spegnere l’incendio nel suo negozio a Kenosha. L’editore capo del Philadelphia Enquirer dovette rassegnare le dimissioni nel luglio del 2020 per le proteste del personale per aver scritto un pezzo intitolato: ‘Anche gli edifici contano’. Ma se vivevi in quei quartieri dati alle fiamme, non dovevi afferrare un estintore. La reazione accettabile, l’unica accettabile, era vedere le pareti demolite, guardare le fiamme e dire: grazie.”

Nel frattempo la Cnn definisce le rivolte di Kenosha “focose, ma perlopiù pacifiche”, in una immagine diventata un famoso meme, con un reporter che parla su uno sfondo di automobili in fiamme.

Dai loro social le stelle del mondo dello spettacolo incitano alla rivolta, magnati del Big Tech versano milioni nelle casse di organizzazioni di attivisti impegnate nelle proteste, anche violente. Per Jacob Blake si mobilita l’NBA, che entra in sciopero, e l’NFL, con la squadra dei Saints che entra in campo con il nome di Jacob Blake sugli elmetti.

In tutta l’America la polizia si ritira e lascia campo libero ai rivoltosi. Procuratori distrettuali si rifiutano di perseguire chi viene arrestato. In molte città la guerriglia da strada diventa una porta girevole in cui la polizia arresta i violenti, ma quelli il giorno dopo sono di nuovo in strada.

Ogni tentativo di riportare l’ordine viene accusato di repressione, o addirittura di essere il prologo all’instaurazione di una dittatura da parte di Donald Trump. La Speaker della Camera Nancy Pelosi definisce “Stormtroopers”, un termine di solito riferito alle camice brune del partito nazista, gli agenti federali inviati da Trump a rompere l’assedio al tribunale federale di Portland, che da diverse settimane subisce attacchi da parte di Antifa e Black Lives Matter.

Il candidato del Partito democratico alla presidenza, Joe Biden, esibisce generiche condanne della violenza, ma nei suoi discorsi sottoscrive tutte le teorie e le lamentele dei rivoltosi: l’America è “sistemicamente razzista”, le violenze sono causate da suprematisti bianchi, Trump è un dittatore.

Mentre tutto questo avviene su scala nazionale, a Kenosha la situazione è drammatica. Dozzine di edifici vengono dati alla fiamme da attivisti giunti da ogni parte del Paese. A sostegno della polizia viene schierata la Guardia Nazionale ma, secondo i nuovi canoni di gestione delle rivolte, le forze dell’ordine lasciano perlopiù liberi i rivoltosi intervenendo solo dove sia strettamente necessario. Nella speranza di essere risparmiati, gli abitanti di Kenosha iniziano ad esporre sulla porta di casa cartelli con scritto: “Qui vivono bambini”.

La seconda notte delle rivolte fanno la loro comparsa nelle strade uomini armati decisi a proteggere Kenosha. Si tratta di gente sia del luogo sia arrivata da fuori, sia membri di milizie che non affiliati. Kyle Rittenhouse ha passato la notte dall’amico Dominick Black, e il giorno prima è stato impegnato nel ripulire il liceo locale da graffiti lasciati dai manifestanti. Kyle e Dominick Black decidono di unirsi a vigilantes. L’intenzione di Rittenhouse è, testimonierà, di offrire soccorso medico a chi dovesse averne bisogno, ed entrambi portano con sé un fucile semiautomatico per difendersi in caso di necessità.

Nella notte tra il 25 e il 26 agosto, Kyle Rittenhouse viene visto da numerosi testimoni e filmato da reporter in diverse occasioni mentre presta soccorso medico a feriti o in compagnia di altri vigilantes. A un certo punto alcuni dimostranti danno fuoco a un cassonetto dell’immondizia e iniziano a spingerlo verso una stazione di benzina. La polizia e i vigilantes intervengono spegnendo il fuoco con un estintore. Uno dei rivoltosi che stava spingendo il cassonetto in fiamme, Joseph Rosenbaum, diventa aggressivo, continua a sfidare i vigilantes a sparargli. “Se vi becco da soli stanotte, vi ammazzo”, dice specificatamente a Rittenhouse e a un suo compagno. “Anch’io ti voglio bene”, risponde Rittenhouse.

Rosenbaum è un pregiudicato con una lunga fedina penale che include 11 incriminazioni per abusi sessuali su minori di età comprese tra i 9 e gli 11 anni, è in libertà vigilata. La sera precedente era stato visto spingere un altro cassonetto in fiamme contro delle auto della polizia e compiere numerosi altri atti vandalici.

Più tardi quella notte Rosenbaum è presente sulla scena di un altro incendio, ad un’autofficina, viene visto incendiare altri bidoni dei rifiuti. Lì rivede Kyle Rittenhouse e si scaglia contro di lui. Rittenhouse fugge urlando: “Amico! Amico!”, Rosenbaum lo insegue. Altri manifestanti si uniscono all’inseguimento, uno di loro, Joshua Zeminski, esplode un colpo di pistola. Rittenhouse si volta, Rosenbaum lo raggiunge e cerca di afferrare il suo fucile. Rittenhouse spara uccidendo Rosenbaum.

L’intero episodio viene ripreso in video da passanti e da reporter presenti sulla scena. Uno dei reporter, Richie McGinnies, cerca di prestare soccorso a Rosenbaum. Sul posto si è radunata una folla composta perlopiù da rivoltosi. Rittenhouse chiama Dominick Black al telefono: “Ho ucciso un uomo. Vado a cercare la polizia”, e inizia a correre. Alcuni dei dimostranti lo inseguono tra le urla. “Prendetelo!”, “Uccidetelo!”, ora Rittenhouse è inseguito da non meno di una ventina di persone. Viene ripetutamente colpito da pugni e calci, almeno uno degli inseguitori ha in mano una pistola, nell’aria riecheggiano numerosi altri colpi di arma da fuoco. Quando inciampa e cade, Anthony Huber, un altro rivoltoso con precedenti penali per violenza domestica, lo colpisce in testa due volte con uno skateboard e cerca di strappargli il fucile di mano. Rittenhouse spara uccidendo Huber, poi si rialza e prosegue la sua fuga.

A questo punto fa la sua entrata in scena Gaige Grosskreutz, un attivista appartenente ad un’organizzazione politica socialista impiegato a Kenosha dalla ACLU come osservatore. Grosskreutz è in possesso di un’arma illegale, una pistola Glock, che non è autorizzato a possedere a causa della sua lunga fedina penale. Raggiunge Rittenhouse, estrae la pistola e gliela punta contro. Rittenhouse spara colpendo Grosskreutz al braccio, neutralizzandolo, e corre via. Raggiunge la polizia e si consegna.

Con Kyle Rittenhouse sotto custodia, l’America pro-proteste, guidata dai media, si schiera per la colpevolezza ben prima che i fatti siano noti. Nascono qui molte delle false storie che si trascinano ancora oggi, come quella secondo la quale Rittenhouse avrebbe attraversato il confine dello Stato in possesso di un’arma illegale, come pure la nozione, basata assolutamente sul nulla, che Rittenhouse sia un “suprematista bianco”, espressione la cui definizione è stata ormai allargata ben oltre il suo significato originale.

Molti politici Democratici, incluso lo stesso Joe Biden, definiscono Rittenhouse un suprematista bianco, e la sua immagine viene utilizzata in uno spot elettorale della campagna Biden proprio con questa dicitura. Come una palla di neve che diventa valanga rotolando giù per una collina, le rappresentazioni di Rittenhouse come di una figura demoniaca si ingrossano sempre di più. Si tratta di un “terrorista domestico”, che ha ucciso dei “manifestanti pacifici” senza alcuna provocazione. Era andato a Kenosha espressamente “per uccidere”. “Mettetelo in galera e buttate via la chiave”.

Naturalmente la situazione peggiora quando Trump si rifiuta di condannare Rittenhouse dicendo di voler aspettare che la giustizia faccia il suo corso.

Come ormai regola, alle parole susseguono azioni concrete. GoFoundMe chiude la pagina che raccoglie fondi per la difesa legale di Kyle Rittenhouse. Un poliziotto in Virginia e un paramedico nello Utah, che avevano effettuato una donazione, vengono doxati e investigati dai propri dipartimenti. Il poliziotto perde il lavoro. Facebook sospende gli account che supportano il giovane, Twitter disabilita il pulsante “ritwitta” sull’account della madre di Kyle. La sparatoria è forse la meglio documentata della storia, ripresa da dozzine di videocamere, ma le clip video finiscono algoritmicamente in fondo alla coda.

Dopo la condanna di Derek Chauvin, il cui processo è stato contraddistinto da una copertura mediatica fortemente colpevolista, inopportuni commenti da parte dei politici, e minacce di ulteriori rivolte violente, sembra proprio che Kyle Rittenhouse sia destinato a fare la stessa fine.

A questo punto il processo ha una chiara connotazione politica. I media, i politici democratici, il mondo dell’attivismo hanno fatto di Rittenhouse una bandiera del suprematismo bianco e del vigilantismo anti-protesta, “focosa ma perlopiù pacifica”. L’America dall’altra parte, quella che non crede che l’America sia “sistemicamente razzista” e che non ha giustificato le rivolte “perlopiù pacifiche” dell’estate 2020, sente che una condanna di Rittenhouse significherebbe in pratica la fine di qualunque possibilità di fermare rivoltosi violenti.

Non importa quale sia la causa della rivolta, anche pretestuosa come il ferimento di Jacob Blake, gli attivisti marceranno, i facinorosi distruggeranno e incendieranno, i media minimizzeranno, i politici solidarizzeranno, la polizia e le corti condoneranno. E coloro che subiscono, beh, non possono agire. Nemmeno per legittima difesa. Il sentimento viene riassunto da Jim Hanson su The Federalist:

“Lo scopo dei provocatori dei media è di delegittimare questo diritto fondamentale a proteggere le nostre comunità e noi stessi in assenza di forze di sicurezza ufficiali. Gli stanno benissimo le orde che saccheggiano e distruggono, e hanno addirittura inventato il vergognoso eufemismo ‘giustizia ricostituente’ per descriverle”.

Il processo si apre a Kenosha il 2 novembre 2021. Kyle Rittenhouse è imputato di tre capi di omicidio, due capi di condotta pericolosa, e un capo di possesso di un’arma pericolosa e vietata ai minorenni.

Per l’accusa le cose si mettono male fin da subito. Tutti i video confermano la versione di Rittenhouse, e così pure i testimoni. Richie McGinnies, il reporter che ha filmato la sparatoria e soccorso Rosenbaum, conferma che questi inseguiva Rittenhouse e ha cercato di impossessarsi della sua arma. Ryan Balch, che era con Kyle alla stazione di servizio, conferma la precedente minaccia di morte da parte di Rosenbaum. Ma il vero momento di svolta, un colpo di scena degno di Parry Mason, si ha quando Gaige Grosskreutz, contraddicendo quanto dichiarato precedentemente, ammette di aver puntato la sua pistola verso Rittenhouse per primo.

A questo punto non sono pochi gli avvocati criminalisti che seguono il processo a chiedere che venga chiuso immediatamente, e a domandarsi perché un caso così evidente di legittima difesa sia stato portato di fronte a una giuria del tutto.

Il professore emerito della facoltà di legge di Harvard Alan Dershowitz, storico avvocato dei diritti civili protagonista di clamorosi casi della storia recente americana (e quello che fece assolvere OJ Simpson), non ha dubbi: “Se io fossi nella giuria, voterei per il legittimo dubbio, che abbia agito per autodifesa”, e incoraggia Rittenhouse a querelare tutti i media che lo hanno calunniato.

Ma, con qualche eccezione, i media non mollano. Continuano a ripetere le stesse storie e accuse, e iniziano ad attaccare il giudice. Gaige Grosskreutz viene intervistato alla Cnn da uno dei suoi anchorman di punta, Anderson Cooper, e dopo aver testimoniato sotto giuramento che è stato lui per primo a puntare la pistola, in diretta televisiva, torna a negarlo. Alcuni media arrivano ad alterare i video e i trascritti del processo.

Malgrado ciò, il numero delle persone che seguendo il processo si rende conto di essere stata disinformata inizia ad aumentare. Bari Weiss, ex giornalista del NYT, ora indipendente, scrive:

“Ecco ciò che credevo essere vero riguardo Kyle Rittenhouse negli ultimi giorni del 2020 basandomi sui racconti dei media mainstream. Si trattava di un diciassettenne vigilante razzista. Aveva attraversato il confine dello Stato con un fucile semiautomatico acquistato illegalmente per andare a Kenosha, una città con la quale non aveva nessun rapporto. Credevo ci fosse andato perché sapeva che ci sarebbe stata una protesta di Black Lives Matter e voleva attaccare briga. E credevo che la sera del 25 agosto 2020 avesse fatto proprio quello, uccidendo due manifestanti pacifici e ferendone un terzo.”

E aggiunge:

“Non si è trattato di una campagna di disinformazione portata avanti da trolls su Reddit o account Twitter anonimi. È stata spinta dai media mainstream e da membri del Congresso in carica per il bene di una narrazione politica di comodo. Una narrazione che chiedeva al pubblico di credere, tra le altre irrealtà, che interi isolati in fiamme costituissero una protesta pacifica”.

Il procuratore riceve un’altra doccia fredda quando l’accusa di possesso di un’arma pericolosa viene fatta decadere. Il fatto che Kyle Rittenhouse, un diciasettenne, fosse armato di fucile ha generato molta perplessità e molte notizie false e nozioni confuse perciò è bene spiegare in dettaglio:

  1. Rittenhouse non ha attraversato il confine dello Stato con un’arma, l’arma era già in Winsconsin.

2. La legge vieta ad un minorenne di acquistare armi da fuoco, ma non di maneggiarle in determinate circostanze. Ad esempio per la caccia, ad un poligono di tiro, o a scopo di difesa personale. Notare che ciò vale solo per le armi lunghe.

3. Dominick Black ha testimoniato di aver acquistato l’arma per conto del giovane e di averla custodita a casa propria. Acquistare un’arma per conto di un minore sarebbe illegale, si chiama “straw purchase”, ma per qualche motivo né Black né Rittenhouse sono stati accusati di tale crimine, ma non è chiaro il perché. Forse si è trattato di una immunità conferita a Black in cambio della sua testimonianza contro Rittenhouse, forse il fatto che l’arma venisse custodita a casa di Black rendeva il caso debole.

Come se non bastasse, nel corso del processo l’accusa si rende protagonista di numerose violazioni etiche e procedurali, guadagnandosi aspre reprimende da parte del giudice, che a un certo punto dice addirittura al pubblico ministero di non credere alla sua buona fede, dopo che ha menzionato alla giuria un elemento di prova che era stato escluso in quanto non rilevante in fase pre-processuale (si trattava di una foto di Rittenhouse, post-arresto, in compagnia di alcuni membri dei Proud Boys), e per aver suggerito alla giuria che ci fosse qualcosa di sinistro nel rifiuto di Rittenhouse di parlare con la polizia dopo l’arresto prima di aver parlato con un avvocato. Come sa chiunque ha mai visto un poliziesco americano, negli Stati Uniti il “diritto a rimanere in silenzio” costituisce la normale procedura, ed è di fatto un diritto garantito dalla legge sulla base del Quinto Emendamento della Costituzione.

Viene anche fuori che l’accusa potrebbe aver nascosto delle prove alla difesa. In particolare un video ripreso da un drone di sorveglianza dell’FBI che mostra l’intera sequenza dei fatti. L’accusa ha inviato alla difesa solo una versione a bassa risoluzione del video, e si giustifica incolpando la compressione durante l’invio.

Sulla base di queste violazioni, la difesa avanza più di una richiesta di proscioglimento del processo con pregiudizio (impossibilità di processare Kyle Rittenhouse di nuovo), ma il giudice si riserva di decidere dopo aver ascoltato la giuria.

La giuria è tesa. Le identità dei giurati sono segrete, ma già qualcuno è stato pizzicato a tentare di identificarli. Un uomo è stato fermato mentre riprendeva i giurati che entravano in aula, e la rete televisiva MSNBC è stata bandita dall’aula perché una sua inviata ha tentato di seguire il pulmino che accompagna i giurati a casa alla fine della giornata. Il nipote di Jacob Blake rilascia un delirante video in cui minaccia direttamente i giurati. Recandosi alla corte il pulmino dei giurati deve passare ogni giorno attraverso un cordone di manifestanti che minacciano ogni tipo di vendetta se Kyle Rittenhouse viene assolto. Molti temono che i giurati possano venire intimoriti e che il loro giudizio sia influenzato.

La giuria resta in sessione per tre giorni e mezzo, il che di solito è un brutto segno per la difesa, ma quasi a sorpresa al momento del verdetto, dichiara Kyle Rittenhouse prosciolto da tutte le accuse.

E l’America si ritrova nuovamente divisa tra rabbia e sollievo. La narrazione sui media e nella politica rimane invariata, e anzi urla vendetta: si è trattato di una vittoria del suprematismo bianco, della prova che il sistema americano non funziona. Anche il presidente Biden, pur esortando a rispettare la decisione della giuria, si dichiara “arrabbiato e preoccupato”.

La stampa estera poi è un’orgia di disinformazione appiattita su cliché. Kyle Rittenhouse è un miliziano di estrema destra, o addirittura un poliziotto, che ha aperto il fuoco indiscriminatamente su dei pacifici manifestanti neri.

L’altra America è sollevata. La paura di vedere la fine del vecchio sistema della giuria popolare, capace di prendere la decisione impopolare ma giusta di fronte alle intimidazioni, è stata forte. Ma rimane preoccupata. “Non avrebbe dovuto essere in dubbio. Non avrebbe dovuto richiedere tre giorni e mezzo per deliberare. Non avrebbe dovuto essere perseguita”, dice Will Chamberlain, co-editore della rivista conservatrice Human Events e avvocato.

“Abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra”, dice Tim Pool, giornalista indipendente che ha seguito la vicenda Rittenhouse dall’inizio e da vicino, e che non ha mai fatto mistero della sua convinzione che Kyle fosse innocente, “E per molti versi, abbiamo sostenuto gravi perdite”.

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