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Washington sfida Pechino e invita Taiwan al vertice per la Democrazia

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Mantenendo una promessa formulata in campagna elettorale, Joe Biden ha fatto organizzare dal Dipartimento di Stato il vertice virtuale “The Summit for Democracy”. L’incontro si terrà il 9 e 10 dicembre, vedrà la partecipazione di ben 110 nazioni e tratterà soprattutto il tema dei diritti umani caro ai Democratici Usa (in particolare ai tempi della presidenza Obama).

Fin qui niente di eclatante. Si tratta del solito vertice internazionale, che per di più si svolgerà a distanza, destinato a ribadire le posizioni dei vari Paesi partecipanti senza che nessuno si attenda esiti importanti. C’è però un fatto clamoroso e degno di nota. A differenza di quanto avveniva in occasione di eventi simili, tra gli invitati non figura la Repubblica Popolare Cinese (ossia la Cina comunista fondata da Mao Zedong), bensì la Repubblica di Cina (ovvero Taiwan, erede della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek).

Scontata la reazione furiosa di Xi Jinping e dei media cinesi, che hanno ancora una volta avvertito Biden di “non scherzare col fuoco”, frase usata ogni volta che qualcuno osa mettere in dubbio l’appartenenza di Taiwan alla Cina continentale. E, di conseguenza, il “diritto” di Pechino ad annettere la piccola isola – che è pure una grande potenza tecnologica – con le buone o con le cattive.

In ogni caso mette conto notare che il presidente americano, con questa mossa di alto valore simbolico, continua a manifestare l’intenzione di difendere Taiwan ad ogni costo, anche militarmente se necessario. E tale atteggiamento, invece, non è affatto scontato. Negli ultimi decenni gli Stati Uniti, pur mantenendo stretti rapporti economici e politici con Taiwan, hanno accettato lo slogan di Pechino “Una sola Cina”, lasciando di fatto l’isola in una sorta di “limbo” diplomatico che ha consentito al Partito comunista cinese di isolarla quasi completamente nello scenario internazionale.

Si tratta ora di capire se Biden, che deve far dimenticare agli alleati la sua disastrosa gestione del ritiro dall’Afghanistan, è disposto a giocare sino in fondo questa fondamentale partita, magari cercando di capire quali carte ha in mano il suo avversario (e vecchio conoscente) Xi Jinping. In altri termini, bisogna capire, da un lato, se il presidente Usa è disposto a correre il rischio di uno scontro diretto con la Repubblica Popolare, che potrebbe anche condurre a un conflitto con armi nucleari.

Lo stesso ragionamento vale per i cinesi, che probabilmente non si sentono ancora pronti ad affrontare un simile scontro visto che le forze armate americane sono tuttora le prime al mondo. Diversi sono i fattori in gioco in questo caso. Xi si è impegnato personalmente a far “rientrare” l’isola nella Cina, mossa che non è riuscita ai suoi predecessori da Mao in avanti. Se andate a Pechino, trovate facilmente molti gadget con slogan inneggianti al ritorno di Taiwan nei confini cinesi, anche se l’isola può vantare lunghi periodi si separazione dalla cosiddetta “madrepatria”.

Ma bisogna pure tener conto del fatto che dall’ultimo plenum del Partito comunista è giunto a Xi l’invito a non esacerbare troppo le ragioni di conflitto con gli Usa. Di questo segnale il segretario del PCC deve tener conto, anche perché l’anno prossimo sarà in gioco la sua nomina al terzo mandato, avendo il suddetto plenum cancellato la norma che imponeva il vincolo dei due mandati. L’unica carta che Xi potrebbe giocare è la profonda divisione della società e del mondo politico americani, che di fatto indeboliscono un presidente già debole per suo conto. Ma è tutto da dimostrare che tale divisione sia così forte da impedire una decisa reazione Usa all’invasione di Taiwan.

I giochi, insomma, sono del tutto aperti. Difficile che l’invito di partecipazione rivolto alla Repubblica di Cina, a scapito della Repubblica Popolare, preluda al pieno riconoscimento diplomatico di Taiwan. Pechino ha fatto capire più volte che un simile riconoscimento verrebbe considerato una vera e propria dichiarazione di guerra. E l’America, come del resto le altre nazioni occidentali, non può permetterselo visti i rapporti economici e commerciali – tuttora stretti – che legano Pechino alle nazioni dell’Occidente. Tuttavia è importante che il problema sia stato posto in termini espliciti in occasione di un vertice internazionale.

Gli eredi di Mao sono finora riusciti ad evitare proteste ufficiali per l’isolamento diplomatico cui Taiwan è condannata a causa dei diktat di Pechino. Ma era inevitabile che, in occasione di un vertice dedicato allo stato di salute della democrazia, la Repubblica Popolare venisse esclusa considerata la sua natura dittatoriale. Altrettanto inevitabile (anche se c’è voluto coraggio) invitare al suo posto Taiwan, una liberal-democrazia in linea con quelle occidentali.

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