Bastavano due parole: “Chiediamo scusa“. Invece il presidente cinese Xi Jinping ha preferito dirigersi all’assemblea annuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) come se il suo Paese fosse una vittima tra le tante della pandemia. Anzi, per essere più precisi, la nazione da seguire se il mondo vorrà uscire dall’emergenza. Nel suo intervento in videoconferenza ha ribadito la linea consolidata negli ultimi mesi di propaganda globale: la Cina ha attuato “con trasparenza e responsabilità“, fornendo alla comunità internazionale “tutta l’informazione tempestivamente“, “senza riserve” e facendo tutto il possibile per “assistere i Paesi che ne avevano bisogno“. Ha giocato d’anticipo Xi Jinping, intervenendo il giorno prima della decisione – poi significativamente adottata all’unanimità, Cina compresa (sic!) – sull’inchiesta internazionale promossa dall’Unione europea insieme a Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda (ma appoggiata anche dalla Russia) per chiarire le cause della diffusione del nuovo coronavirus. La soddisfazione di Pechino dopo il voto – “uno schiaffo in faccia all’Australia”, l’ha definito il governativo Global Times – dovrebbe prevenire chiunque da facili entusiasmi. “Non siamo contrari a un’indagine indipendente“, avevano fatto sapere i cinesi per bocca del portavoce del Ministero degli esteri, aggiungendo però che era ancora troppo presto per condurla e che sarebbe stato necessario aspettare la fine della crisi sanitaria. Un rinvio “diplomatico” grazie al quale la Cina compra tempo, confidando nello stemperarsi della tensione. Anche se alla fine ci sarà, la missione internazionale non farà troppi danni al regime. Se si svolgerà, come sembra, sotto la guida dell’Oms, risulterà essere una semplice formalità: i cinesi consegneranno lo spartito e gli zelanti funzionari agli ordini di Tedros si limiteranno ad eseguire i movimenti. Ma anche in caso di un’indagine davvero indipendente, con un team internazionale di esperti di distinta provenienza (come per le missioni nella penisola arabica in occasione della MERS), i destinatari avranno avuto comunque il tempo di neutralizzarne le possibili conseguenze.
Ecco perché il discorso di Xi Jinping tenta di rovesciare la prospettiva a suo favore, promettendo due miliardi di dollari all’Oms (mossa bollata prontamente da Trump come opportunista) e proponendo addirittura di fare della Cina “un polo per le emergenze sanitarie a livello globale“. Il presidente cinese non ha mancato di ribadire il concetto a lui tanto caro di “comunità con un futuro condiviso per l’umanità“, dietro al quale – come già spiegato su Atlantico – si cela in realtà la strategia espansiva del Partito Comunista Cinese (PCC). Particolarmente significativo il passaggio sull’Africa e i Paesi “in via di sviluppo“, cui la Cina continuerà a “offrire aiuto“, e che evidentemente a Pechino vedono come un terreno propizio per consolidare la propria influenza in un momento in cui i rapporti con l’occidente sono complicati dalla crisi: una Via della Seta sanitaria rilanciata proprio nel momento in cui 54 stati africani si uniscono alla richiesta di un’indagine. Un intervento, infine, che tace completamente sulle responsabilità del suo governo, che fa riferimento a una “governance globale in materia di salute pubblica“, ovviando le omissioni e i ritardi che hanno permesso al virus di espandersi su scala mondiale.
Eppure, qualcosa si muove. Primo: anche se quella approvata è una risoluzione annacquata rispetto alla proposta iniziale australiana che aveva provocato le ire di Pechino (questa volta la Cina non viene neppure nominata), il fatto che tutti si siano detti d’accordo mette pressione alla dittatura del Partito Comunista. Secondo: cominciano a trapelare alcune ammissioni che confermano le omertà e gli insabbiamenti nelle prime e decisive fasi della gestione dell’emergenza a Wuhan, denunciate da più parti negli ultimi mesi fino alle accuse formulate di recente dal segretario di Stato americano Mike Pompeo. Liu Dengfeng, alto funzionario del dipartimento di salute pubblica, ha confermato in questi giorni la distruzione di campioni in diversi laboratori cinesi, attribuendola però a “ragioni di sicurezza“. Quello della scomparsa delle prove, ordinata in ultima istanza dal Ministero della sanità ad inizio gennaio, è uno dei passaggi fondamentali su cui si è incagliata la catena di informazioni fino all’ammissione della trasmissibilità tra persone, tre settimane dopo. Secondo Liu la decisione fu presa per “prevenire il rischio di conseguenze disastrose causate da agenti patogeni non identificati“, il che rappresenta una conferma indiretta della possibilità di fuoriuscita del virus dai laboratori coinvolti.
Il professor Zhong Nanshan, un’autorità in campo epidemiologico, già protagonista della battaglia contro la SARS, in una recente intervista alla Cnn ha riconosciuto che, quando il 18 gennaio fu chiamato a Wuhan, le informazioni ufficiali parlavano di soli 41 casi: “Chiesi i numeri reali alle autorità ma in quel momento non avevano nessuna intenzione di dire la verità“. Zhao Fei, ricercatore per lungo tempo al Wuhan Institute of Virology, in un articolo patrocinato dall’Accademia delle Scienze di Pechino ha invitato i suoi colleghi del laboratorio sotto accusa a spiegare chiaramente i metodi di lavoro e le procedure interne, in modo da confutare le ipotesi che indicano proprio il WIV come possibile focolaio dell’infezione. Anche qui, un invito alla trasparenza contro il silenzio ufficiale imposto dal centro. Messaggi diversi ma complementari che rispondono ad una logica coerente: se la Cina non ha nulla da nascondere, perché continuare ad alimentare sospetti con un atteggiamento ambiguo e dilatorio, quando sarebbe prima di tutto nell’interesse di Pechino contribuire a chiarire le origini del contagio?
A parte le risposte scontate sulla natura del regime, forse sono anche ragioni estremamente pratiche a sconsigliare ai cinesi di aprire in questo momento il Paese a un’indagine seria. Shulan è una città di settecentomila abitanti nel nord-est del Paese, a un tiro di schioppo (si fa per dire) dalla Russia e dalla Corea del Nord. Da lunedì è sigillata in entrata e in uscita per coronavirus: 34 i casi ufficialmente confermati ma misure di sicurezza scattate all’istante. Secondo Bloomberg i provvedimenti restrittivi coinvolgerebbero però 108 milioni di persone in tutta la provincia dello Jilin, un déjà vu che dimostra la precarietà della situazione nel Paese che dichiara al mondo di aver sconfitto la malattia. Sei dirigenti locali del Partito sono stati rimossi, in quella che sembra diventata ormai una costante dell’autoritarismo cinese: tagliare i rami secchi per proteggere l’albero.
Torniamo, per concludere, all’Assemblea Mondiale della Sanità. Prima dell’apertura circolava nell’aria l’affaire Taiwan, ovvero la possibilità che l’isola fosse riammessa nell’Oms in qualità di osservatore. Ma all’ultimo momento l’istanza è abortita: Taipei ha ritirato la richiesta su pressione dei suoi stessi alleati, ufficialmente per non distogliere l’attenzione dalla lotta al Covid-19. È una vicenda emblematica del fatto che, al di là delle dichiarazioni di circostanza, nessuno ha davvero intenzione di inchiodare la Cina alle sue responsabilità. Taiwan è l’esempio perfetto delle contraddizioni della Repubblica Popolare: oasi democratica piantata davanti a un colosso autoritario, esempio di sviluppo economico in una società aperta, gestione perfetta dell’emergenza sanitaria provocata dall’ingombrante vicino che, oltretutto, negli ultimi mesi ha moltiplicato la presenza militare nello Stretto. Eppure è bastato che Pechino minacciasse velatamente di far saltare il banco per mettere sotto silenzio la questione. Finché si accetteranno le rimostranze delle dittature che vedono in ogni argomento di diritto delle “provocazioni“, le istituzioni internazionali saranno soggette ai loro ricatti. L’Onu è da anni la caricatura di se stessa, proprio per essere diventata terreno di conquista da parte dei regimi più illiberali del pianeta (si pensi solo alla farsa del Comitato per i Diritti umani). L’Oms è oggi uno degli esempi più flagranti del disinteresse delle democrazie occidentali a costruire sistemi di garanzie reali a livello transnazionale, fondati sulla non-equivalenza dei sistemi politici. Con un consenso liberale forte e intenzionato a difendere i suoi principi, il discorso di Xi Jinping – invece di essere la premessa a una risoluzione incolore – sarebbe durato il tempo necessario a pronunciare due semplici parole: “Chiediamo scusa“.