È notizia di questi giorni, o meglio, in questi giorni se ne sta parlando un po’ più del solito, l’enorme difficoltà delle case automobilistiche a consegnare nuovi automezzi. Ciò accade principalmente per due motivi: la scarsità di acciaio in lastre e la carenza di materie prime particolarissime, le componenti elettroniche di sistema. Sappiamo che le auto di oggi, ma non solo quelle, sono sempre più ricche di componentistica basata sui semiconduttori, quei minuscoli elementi elettronici quali transistor e circuiti integrati che permettono di gestire in modo velocissimo ed efficiente le più complesse funzioni dell’interfaccia uomo-macchina.
Cosa sta accadendo nel mondo dell’automotive, in particolare? Semplice: che al crescente impiego di parti elettroniche, in un quadro di sviluppo che sembrava inimmaginabile soltanto pochi anni fa, si contrappone una crescente scarsità di approvvigionamento delle parti elettroniche di base, soprattutto semiconduttori. I motivi di tali difficoltà nel reperire sul mercato tanta componentistica quanta ne richiede un mezzo complesso e rivolto al costante sviluppo futuristico quali l’automobile di oggi sono principalmente di carattere politico. Riservando ad un successivo articolo il problema delle materie prime per la costruzione dei semiconduttori, quali il silicio, e la c.d. questione delle terre rare, che coinvolge questioni spiccatamente geopolitiche e addirittura legate alla colonizzazione del Polo Nord, esaminiamo in quest’articolo quale sia il ruolo della Cina, che sapientemente regola il rubinetto delle forniture mondiali di acciaio e parti elettroniche a suo piacimento, secondo uno schema industriale ormai ben noto a tutti.
È, tutto sommato, la regola dei grandi numeri della produzione industriale di massa a trovare impiego in ogni settore produttivo del terzo millennio. Se fino ad un paio di decenni fa si poteva scegliere da chi acquistare le materie prime ed i semilavorati scegliendoli tra i più convenienti, oggi dobbiamo purtroppo orientarci tra gli unici che hanno ancora interesse economico a produrli. Detto in altre parole, o si compra dai cinesi o non si produce del tutto ciò che è fatto in acciaio o abbisogni di componentistica elettronica in grandi quantità. La dissennata turbopolitica industriale degli ultimi tempi ha sempre più sottovalutato e tollerato, per motivi di miope convenienza economica del momento, che il Dragone continuasse a crescere incontrastato in quei settori, primo fra tutti quello siderurgico, ritenuto meno importante di altri.
La conseguenza, per esprimersi in modo un po’ semplificato, è che da qualche decennio anche il più attrezzato costruttore, mettiamo, di automobili non ha più disponibilità di tutto l’acciaio che gli serve per carrozzare quel capolavoro di tecnologia che è il veicolo moderno, o meglio, può solo comprare l’acciaio dai cinesi se non vuole rimetterci. Sui motivi per cui la produzione siderurgica nel resto del mondo (e già fa senso parlare di Cina vs resto del mondo) è sempre più drasticamente calata, a fronte dello sviluppo impressionante dell’industria pesante di Pechino, si potrebbero scrivere centinaia di libri, anzi, se ne scrivono già a migliaia. Per rimanere nel nostro beneamato Paese, basterebbe citare l’agonia dell’Ilva, una volta maggior produttore italiano di acciaio in lastre, ormai ridotta ad un cumulo di rovine.
Parliamo di numeri nudi e crudi: nel 2019 la Cina ha prodotto poco meno di un miliardo di tonnellate di acciaio, con un secondo classificato, l’India, che ha prodotto 101 milioni di tonnellate e con l’Italia, posta all’undicesimo posto della classifica mondiale, ferma a 25 milioni di tonnellate. Con questi numeri, ogni considerazione macroeconomica appare inadeguata e fine a sé stessa. D’altra parte, già in epoche non troppo remote, il mondo intero ha dovuto prendere dolorosamente atto, pagandone il prezzo di guerre con relativi morti e danni non ancora riparati, che lo strapotere delle potenze petrolifere avrebbe brutalmente cambiato l’economia globale, con ricadute che nei bei discorsi teorici di tanti economisti di spicco dal Dopoguerra ad oggi non erano minimamente previste.
È La forza bruta dei grandi numeri a prevalere, adesso più che mai. Se nel campo militare l’impressionante schieramento dei carri armati sovietici, con il loro esorbitante tonnellaggio di acciaio di mediocre qualità, tenne per decenni sotto scacco la più grande potenza economica degli anni ’70 e ’80, gli Stati Uniti, la lezione non sembra servita affatto ad evitare, soltanto un ventennio dopo, che il tonnellaggio di acciaio, stavolta ad uso prevalentemente civile e pacifico, avrebbe dato alla Cina un primato inimmaginabile all’epoca di Reagan e di Gorbacev, quello della produzione industriale dei più formidabili mezzi di supremazia economica, quelli delle auto e dei computer, che assai più degli armamenti dell’epoca e delle dispute tra armamenti convenzionali, stanno realmente condizionando la vita degli abitanti del nostro pianeta.
Pur senza avallare teorie di complotti globali – di un nuovo ordine mondiale e di enormi potentati concentrati in poche mani governate da volontà senza scrupoli – non possiamo negare che ci troviamo oggi a contemplare con sgomento qualcosa di preordinato e scientemente progettato in certi incontri tra appartenenti a potenti congregazioni sovranazionali che avevano visto giusto, riducendo le strategie militari ad argomento secondario e di pura distrazione, rispetto ad una strisciante ma efficacissima teoria della crescita incontrollata della produzione di quei beni dei quali non possiamo più fare a meno da un bel pezzo e che nessuna vana teoria, come quella della “decrescita felice”, potrà arrestare.
Abbiamo, in buona sostanza, fatto il gioco del “nemico”, quello che già preconizzava quali sarebbero stati i settori trainanti nei decenni successivi e che proprio di quei beni ha saputo rendersi produttore diretto o indiretto a colpi di molte tonnellate giornaliere. È come se il contadino che continua a piantare il grano, in controtendenza con quelli che coltivano prodotti più sofisticati, si trovi ad essere l’unico, almeno per qualche decennio, a poter soddisfare la richiesta di materia prima essenziale per il pane, una volta passata la fiammata delle barrette nutrizionali e di prodotti succedanei.
Guardate che non sto esagerando: questa cosa sta accadendo con la soia, che sta salendo a prezzi folli perché sempre più cresce l’allevamento dei bovini nel mondo, con la conseguente crescente richiesta di mangimi, per cui colture una volta considerate primarie come il cotone o la barbabietola da zucchero verranno trasformate in campi di soia dai più coraggiosi. Qualcuno vede più lungo degli altri, non c’è dubbio. Ed è surreale che la più grande nazione comunista al mondo stia divertendosi a tiranneggiare il suo nemico storico e si arricchisca oltremodo con i “padroni” concedendo alle loro condizioni, oppure negando loro quei beni di cui non possono fare a meno.
Si è forse realizzato il sogno del proletariato al potere? Nient’affatto, semmai è il contrario: non esiste più il proletariato perché l’immensa classe operaia asiatica ha cambiato veste e motivazione; è la borghesia ed ancor più la classe industriale che dipende in tutto e per tutto dagli ex sottomessi operai cinesi, ormai ben consci di avere il pallino in mano, le cui condizioni economiche sono ben diverse da quelle dei quartieri-alveare dell’epoca della Lunga Marcia. Ormai Mao veste Prada, anzi si compra Prada con tutta la sua fabbrichetta. Non ci si faccia ingannare dall’esibizione televisiva di sommarie divise grigiastre dei dirigenti cinesi: sotto la manica della giacchetta informe hanno dei Rolex che noi possiamo solo sognare! Avremmo forse dovuto rispolverare la (patetica e controproducente) autarchia mussoliniana? Ce l’avremmo fatta a produrci tutto da soli? Difficile dirlo e ciò che è fatto è fatto, ma è notizia di cronaca (verificata) di questi giorni che Elon Musk stia procedendo a rendersi pressoché autonomo nella produzione di semiconduttori e quello, almeno finora, ha dimostrato di avere la vista lunga, anche troppo.