Tre anni dalla vittoria elettorale di Zelensky, quella che Canfora e Il Riformista definiscono “colpo di Stato”. Tutto è “colpo di Stato”, se non coincide con gli interessi di Mosca, si sa. “Non vi deluderò”, disse allora il neo-eletto con il 73 per cento dei voti, che molti consideravano perfino troppo conciliante con i russi. Ma Putin è uno specialista nel trasformare le opportunità diplomatiche in bombe a grappolo, anche questo si sa. D’altronde al Cremlino è sempre interessato poco chi fosse al comando a Kiev, l’Ucraina è “nazista” a priori se non è filo-russa, e va trattata come tale. Effettivamente Zelensky non ha deluso, facendosi trovare pronto nel momento più critico della storia europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il comico che, ancora pochi giorni prima dell’invasione, Christian Rocca definiva “persona improbabile e impreparata” e che invece Anna Zafesova aveva descritto con preveggenza già nel 2019, è diventato in due mesi il punto di riferimento dei resistenti anti-totalitari di ogni latitudine. Ha saputo vendere il suo messaggio, non c’è dubbio, ma la stoffa non si improvvisa: da una parte il dittatore paranoico che bombarda una nazione democratica, dall’altra il presidente che dal primo giorno rischia in prima persona e combatte per la libertà e l’indipendenza del suo Paese. Chi non lo vede non è un cultore della “complessità”, è solo cieco.
Dopo la vittoria su Poroshenko, Zelensky parlò in russo ai cittadini degli autoritarismi post-sovietici: “Mi rivolgo a voi, ex sovietici: tutto è possibile”. Era possibile resistere all’imperialismo russo allora, nonostante l’annessione della Crimea e la guerra per procura nel Donbass, è possibile farlo oggi, mentre l’armata putiniana rade al suolo intere città e scava fosse comuni in territorio ucraino. Si moltiplicano intanto le intercettazioni di intelligence dei messaggi che i soldati russi sono soliti scambiarsi prima dei massacri. L’ultima è stata resa nota dalla Cnn: un soldato riporta le parole del suo comandante, “sparate a tutti i civili che potete, fino alla fine, chi si sottrarrà agli ordini sarà considerato un disertore”; “che si fottano”, gli fa eco un altro militare. Linguaggio di guerra, certo. Poi però si scoprono i cadaveri nelle strade di Bucha, i cimiteri di Borodyanka, le macerie di Mariupol, e tutto diventa orrendamente reale. “E come potevamo noi cantare, con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, sull’erba dura di ghiaccio…”, gridava il poeta. Ma che ne sappiamo noi ormai, assuefatti dai programmi della sera, in cui i mitomani proclamano senza contraddittorio “meglio la dittatura che le bombe”, mentre le bombe della dittatura sventrano l’Ucraina, “sotto Mussolini i miei nonni vivevano tranquilli”, perché dall’elogio della “complessità” all’apologia del fascismo in fondo è un attimo.
Vadim Boychenko, attuale sindaco di Mariupol almeno fino a quando i russi non vi installeranno un’amministrazione-fantoccio, denuncia che gli invasori stanno trasportando con i camion i corpi dei civili uccisi verso una fossa comune lunga 30 metri. Forse sono 20 mila le vittime dell’urbicidio, probabilmente di più, la città non esiste più, chi non è morto è scappato, ma restano almeno 100 mila persone intrappolate, molte all’interno delle acciaierie Azovstal, dove si concentra l’ultima resistenza. Ieri Putin ha annunciato che l’assalto è sospeso, per non “mettere a rischio le vite dei militari russi”, mentre si mantiene l’assedio e nessuno potrà né entrare né uscire, “nemmeno le mosche”. Traduzione: non riusciamo a prendere la fabbrica e allora dichiariamo Mariupol conquistata, il villaggio gallico prima o poi si arrenderà per fame. Eppure Kadyrov, l’omologo ceceno del despota del Cremlino, aveva assicurato giusto pochi minuti prima che all’ora di pranzo l’acciaieria sarebbe caduta, e con essa il battaglione Azov che la sta difendendo da settimane. Il brindisi col boss dovrà attendere, anche perché distruggere le fabbriche potrebbe non essere proprio una buona idea, visto che gli obiettivi finali – nonostante le ritirate tattiche e le sconfitte sul campo – restano inalterati: per russificare l’Ucraina ne serviranno di fornaci e di acciaio.
Nel Donbass e nel Sud Putin si gioca la residua credibilità dell’esercito russo, le cui debolezze sono state rivelate impietosamente nel corso del conflitto: il danno di immagine è enorme, comunque finisca. Il comando unificato affidato al generale Dvornikov deve rimediare a un mese e mezzo di caos e sbandamento, in cui gli ordini rispondevano più alle esigenze politiche di Mosca che a motivazioni di carattere militare. Una volta svanita la prospettiva di conquista del potere in pochi giorni, la sbandierata “operazione speciale” è diventata una guerra vera e propria, per cui i russi non erano preparati. Il ripiegamento sul Donbass è un trucco a cui possono credere solo gli allocchi: serve a dichiarare vittoria prima del 9 maggio, spaccare il Paese ed esporlo a successivi attacchi. Se Putin fatica anche lì, si impantana o non vince chiaramente, la crisi sistemica del suo regime potrebbe accentuarsi. E proprio nelle dinamiche interne della dittatura va cercata la soluzione a questa voragine aperta nel cuore dell’Europa da un’avventura criminale come poche altre se ne sono viste nella storia recente.