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Benedetto Croce e il liberalismo conservatore: vittime dell’operazione mistificante delle élites progressiste

L’agile volume di Eugenio Di Rienzo, “Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948”, che appare come primo titolo della nuova collana di Rubbettino Editore (“dritto/rovescio”), diretta dallo stesso Di Rienzo, ha come obiettivo di restaurare la vera fisionomia del “Croce politico” contro i tradimenti della memoria che si sono susseguiti nei passati decenni, analizzando gli anni forse più amari e sofferti della sua lunga esistenza.

Dalla fine degli anni Settanta, scrive Di Rienzo, si è assistito al tentativo (in buona parte, riuscito) di inserire il pensiero e l’azione di Benedetto Croce in un difforme mosaico culturale. Si costruì, allora, una posticcia “casa comune”, dove il liberalismo conservatore del filosofo sarebbe dovuto coesistere armoniosamente con il democraticismo di Giovani Amendola, i furori giacobini di Salvemini e il liberalismo sovietizzante di Piero Gobetti. Tre intellettuali, ai quali l’autore di “Etica e politica” riservò una critica distruttiva, ancora nell’agosto del 1946.

Né questo bastò. Perché in quello stralunato patchwork, accanto alla lezione di Croce, si sostenne che potevano trovare posto anche gli stralci di utopia di Parri e Omodeo, il ribellismo di Ernesto Rossi, il liberalismo (liberal) di Nicolò Carandini, la palingenesi capitalistica profetizzata da Adriano Olivetti, forse, persino l’industrialismo (di sinistra) di Ugo La Malfa e sicuramente la vetusta “mentalità massonica” sempreverde, però, in una parte della classe dirigente del nostro Paese.

Il postumo arruolamento di Croce a precursore di un Tiers parti, nel cui seno le élites autonominatesi progressiste lavorarono attivamente per arrivare al loro personale “compromesso storico” con gli apparatchik di Botteghe Oscure, fu naturalmente un’operazione opportunistica di pura immagine. Proprio uno dei più abili e spregiudicati registi di questa messa in scena Eugenio Scalfari – dopo aver sostenuto, nel saggio biografico del 1986, “La sera andavamo in via Veneto”, che Croce era stato il “filosofo di bandiera” di quella pattuglia d’intellettuali provvisti di manifeste e forti ambizioni politiche – che diede vita ai “giornali-partito” della cosiddetta “borghesia illuminata” (L’Europeo di De Benedetti, l’Espresso e infine la Repubblica), riduceva il lascito del filosofo a carta straccia. Se da una parte, però, Scalfari evidenziava spietatamente i limiti storici e ideali di quell’eredità, dall’altra, mistificava i contenuti del liberalismo crociano, come “religione della libertà”, per piegarli a dare dignità all’avvento della così detta “democrazia compiuta” che doveva consentire al PCI di divenire forza di governo.

Quell’allestimento teatrale ebbe, comunque, successo. Ancora oggi la vulgata corrente insiste sulla narrazione di un Croce ridotto al rango d’intellettuale “progressista”, poco interessato al mantenimento del regime monarchico e forse addirittura incline a favorire la nascita della Repubblica, che considerò semplici incidenti di percorso lo scontro con Togliatti e il duro contrasto con quei liberali, suoi antichi discepoli, transitati nel Partito d’Azione. Di un Croce, ancora, propenso, dopo l’armistizio di Cassibile, a sottostare, senza alzare il capo, agli ukase degli Alleati, poi convinto europeista (quasi fosse un alter ego di Altiero Spineli), infine sinceramente persuaso che, dopo l’olocausto della seconda “Grande Guerra”, gli organismi statali si fossero avviati sulla strada delle “meravigliose sorti progressive” di un nuovo ordine mondiale democratico, equo e solidale, che posto fine allo Stato-Nazione, avrebbe prevalso sugli egoismi delle antiche patrie.

Nell’avversare la strumentalità di quest’operazione, Di Rienzo non fa sconti. E per farlo cita le parole con cui “il Senatore”, nella corrispondenza del 30 marzo 1946, ricordava a Bonomi, Nitti e Orlando di considerare “la parola democratica poco significante, ora che l’adoperano a gara, e persino contro noi liberali, i bolscevichi e i preti”, intimando loro che l’Unione Nazionale per la Ricostruzione, che si costituiva per riunire le forze liberali, in vista delle elezioni dell’Assemblea Costituente (dove Croce fu eletto), non doveva far inutilmente sfoggio di quel termine. Del tutto sviante era, infatti, giustappore i concetti di liberalismo a democrazia nell’insegna di quel cartello elettorale, perché il secondo termine, se bene inteso, era già contenuto nel primo, essendo “liberalismo e democrazia, come i famosi fratelli siamesi, due persone con un unico sistema circolatorio”.

Che poi il direttore de “La Critica” non abbia davvero bisogno, ora come nel passato, di nessun accattivante operazione di restyling, mirata a esaltarne, nella falsificazione del vero, le tendenze progressive, si può facilmente dedurlo proprio dall’orgogliosa e sottilmente ironica lettera del 31 dicembre 1945, ricordata da Di Rienzo, dove Croce, lontano dal lezioso understatement dello “snobismo liberale” scriveva a Togliatti di odiare, nello stesso modo, il fascismo storico, già morto, e il “fascismo rosso”, tuttora vivente, che proveniva dal Comitato centrale del PCI alla vigilia delle elezioni politiche del 1948.

Le dirò che provo un curioso effetto, tra di maraviglia e di filosofico sorriso, nell’udirmi talvolta designare dai suoi come “reazionario” o come “filofascista”. La modestia e il pudore mi vieta di rammentare che io sono stato il più radicale, e con ciò sempre liberalissimo, rivoluzionario nella vita mentale e culturale italiana della prima metà del Novecento. Come sarà riconosciuto e pacifico quando io non sarò più al mondo. E, per quel che si attiene al fascismo, quantunque io sia poco disposto a odiare (l’odio è un troppo grave e doloroso peso), così violento e tenace è il mio odio per esso, in tutti i suoi aspetti, che questo sentimento non si placa neppure ora che è esso è morto, o piuttosto è mal vivo o sopravvivente in talune spesso inconsapevoli pieghe mentali di quelli che come voi si dichiarano miei avversari.