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Brasilia: un romanzo lontano dalla rassicurante ironia tipica della nuova letteratura millennials

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E chi se lo ricordava che Brasilia era la capitale del Brasile. Nei giochi di società l’80 per cento di noi avrebbe risposto Rio de Janeiro. Forse, c’è da chiedere chi si ricorda dell’esistenza di Brasilia, città che, come scritto sulla quarta di copertina di questo splendido romanzo, è una città futurista, inaugurata nel 1960, cioè in pratica l’altro ieri, e progettata dall’architetto visionario Oscar Niemeyer. E qui, in un’atmosfera livida, ocra come lo straniante cielo della copertina, si svolge la storia del giornalista Ernesto Erkens Moreira. Vive a Milano ma il padre, Juan Erkens Moreira, lo fa chiamare perché sta morendo. E lui si precipita in Brasile. E lì, apprende la stravagante e ferale notizia dall’uomo: era a capo di una setta segreta dedita al culto di Satana il cui scopo principale era di allungare la vita ai facoltosi di tutto il mondo terrorizzati dalla morte. Peccato che gli esperimenti avevano provato che la vita erano riusciti ad allungarla, a loro insaputa, solo di qualche centinaio di anni, se andava bene, e non dava l’immortalità.

Dopo la rivelazione, Ernesto si ritroverà catapultato in una realtà distopica, popolata di personaggi bizzarri e inquietanti, lynchiani. Dalla femme fatale Denise al socio del padre, Alhazi, divenuto nemico del vecchio per via del tradimento del patto di segretezza circa i loro scopi e per la sua improvvisa conversione al Cattolicesimo e l’abbandono della via oscura.

Brasilia non ha nulla di rassicurante. Man mano che la scrittura si scompone in tanti diagrammi poetici, appare sempre più evidente che l’autore non intende dare al romanzo, in fondo in fondo, un’aura di goliardia, ipperealtà, teatro dell’assurdo, fors’anche una rassicurante ironia, tipica della nuova letteratura millennials. Qui c’è una cupezza saramaghiana, à la Ray Bradbury, c’è un urlo munchiano di chi si accorge di stare in un sogno, o forse in un sogno dentro un sogno senza sapere come uscirne.

Brasilia
di Franz Krauspenhaar
Castelvecchi
Pag. 124 – Euro 14.50

Le favelas brasiliane sono popolate da zombie che non incutono nessuna compassione, le strade della capitale futurista sono lande desertiche come il cuore malato dell’uomo morente, le cavie umane che dormono in posizione fetale in attesa che la morte venga sconfitta sono un quick flash matrixiano acido e repellente. Krauspenhaar è probabilmente uno dei pochissimi (due o tre a mio avviso) italiani che meritano di essere letti sempre. Perché non sai mai cosa ti aspetti e perché la lingua che decide di utilizzare va di pari passo con questa sorpresa del plot. Qui alterna momenti lirici a fredde incursioni riflessive in un animo più che turbato. E’ l’animo di tutti i protagonisti; comparse, maschere di ghiaccio, umanità plastica che, come i figuranti del sogno di una notte di mezza estate, appaiono orribili o bellissimi a seconda della polverina sugli occhi distillata dal folletto. Brasilia è una perfetta metafora del nostro nuovo mondo, e di quello che negli anni ’60 del secolo scorso era già considerato futurista, dove ricchi e poveri, sani e malati, amici e nemici, padri e madri e figli sono opposti inconciliabili, mostrificati da un’incomunicabilità diabolica (dal greco dya-ballein, separazione). E tentano disperatamente di evitare la morte correndole, pur senza volerlo, incontro.

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