Il Canaro, e l’evoluzione del fascino del male a Roma

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Era un freddo febbraio del 1988 quando Pietro De Negri, soprannominato poi dal quotidiano Il Messaggero “Er Canaro” per la sua attività di tosatore di cani (oggi si chiamerebbe, in maniera più aggraziata, tolettatore) compì la sua personale vendetta contro l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. Fu una storia che occupò i giornali per mesi. Il gesto di De Negri fu atroce.

Questo ometto, piccolo e apparentemente innocuo, era riuscito a chiudere il pugile in una gabbia per cani, a tramortirlo, seviziarlo, torturarlo, mutilarlo addirittura e poi a ucciderlo. Il corpo era stato gettato infine in una discarica della zona, la Magliana, mefitica periferia sud di una Roma criminale ancora non celebrata da film e libri. Il Canaro si era vendicato, diceva, per i soprusi subiti da parte del pugile, che era un bullo, che l’aveva umiliato a più riprese, in particolare davanti a sua figlia piccola. Ma la madre del pugile non credeva alla versione di De Negri; per lei dietro quell’uccisione barbara c’era la mala, c’era la droga (di cui il figlio faceva uso), c’era la Banda della Magliana; il Canaro per lei era stata solo un’esca.

La vicenda oggi viene ripresa non solo nel film di Matteo Garrone, in uscita in questi giorni nelle sale, ma anche dal libro di Luca Moretti, “Il Canaro (Magliana 1988: storia di una vendetta)” (Red Star Press). L’autore incarna Pietro de Negri e, in prima persona, ci racconta non solo l’accaduto, ma una parte della sua vita di emigrato dalla Sardegna a Roma, la sua storia con la moglie, il suo barcamenarsi fra lavoretti, spaccio, consumo di cocaina, e poi il rapporto con la figlia; la goccia che ha fatto traboccare il delicato vaso del suo strano, per certi versi ossessionato rapporto con la sua vittima, quel pugile che a poco a poco si era trasformato nel suo aguzzino, molestatore, stalker. In una sorta di rapporto Master & Servant che rimanda al ferro, alle discariche, al vizio, alle periferie urbane e post industrializzate dei Depeche Mode così tanto amati dal protagonista nonché presenti, vivadio, nel libro.

Luca Moretti calibra perfettamente atmosfere e tratto narrativo finto autobiografico (cosa difficile); plot avvincente e registro psicologico di un personaggio controverso ma umanamente ineccepibile. Un borghese piccolo piccolo venti, trent’anni dopo. In una città che di occasioni per trasformarsi da pacato cittadino in mostro urbano vendicativo te ne dà a bizzeffe. E che, di anno in anno, di decennio in decennio, ha visto crescere i suoi miasmi delinquenziali, cialtroneschi, acuirsi i suoi tratti da sgualdrina in perfida matrona fino al caos odierno, in cui non serve nemmeno più fare la rivoluzione per instaurare l’anarchia. Si è autoimposta come scesa dal cielo, in una sorta di mistica ascensione al contrario. Popolo, borghesia e quel che resta di un’aristocrazia papalina viziosa e strafottente, tutti dal cielo alla terra di nessuno come nel vecchio Miracolo a Milano di De Sica. Noi, per celebrare l’uscita di questo bel libro, con Luca Moretti ci abbiamo parlato, e gli abbiamo chiesto un po’ di cose.

ADRIANO ANGELINI SUT: Prima di tutto: perché ti sei appassionato a questa storia?

LUCA MORETTI: Prima di tutto c’è l’amore, c’è l’amore di un padre per sua figlia, per i suoi occhi. Ogni atto di amore può generare odio e quindi violenza. Poi ci sono le donne che animano questa storia, Madre Tortura, la madre del pugile, ma anche quella che io chiamo Valentina, la moglie dell’assassino. Sono le protagoniste femminili del romanzo: cantano in quella periferia romantica che prima o poi verrà spazzata via dalla furia del Tevere. C’è la vendetta e la soggezione, sono temi romantici anche questi.

AAS: La violenza e la vendetta sono temi profondamente letterari, soprattutto perché la letteratura aiuta a sublimarli. Tuttavia negli ultimi anni in particolare assistiamo a questa ipocrita corsa politicamente corretta a cancellare ogni forma di violenza e/o aggressività dal linguaggio (oggi lo chiamano Hate Speech) e dai comportamenti formali. In parallelo, assistiamo a un incremento del crimine e della violenza gratuite impressionante. Cos’è che non torna?

LM: L’intelligenza sociale ha perfezionato delle forme coercitive del linguaggio a partire dai rapporti umani. Denudandomi potrei dirti che ne pago lo scotto quotidianamente. Eppure questo ha depauperato la lingua riducendola spesso a un sistema di convivenza e di convenienza. La violenza non è muta, lo insegniamo ai nostri figli fin da piccoli, ce lo raccontano i cicli epici ma anche la Commedia di Dante, per fermarsi alle elementari. Sulla violenza e sulla vendetta, su un drammatico fratricidio, è basata la storia della fondazione di Roma. Il contemporaneo ha semplicemente imparato a nascondere il sangue: ripulendo i linguaggi, relegandoli in forme marginali di narrazione, abbiamo d’altro canto perfezionato gli atti criminali, che si svolgono in luoghi e tempi non più raccontati pienamente, un cono d’ombra che è e deve essere lontano dalla civiltà.

AAS: Domanda secca. Roma è più o meno violenta rispetto al 1988?

LM: Roma è sempre stata violenta e lo sarà sempre. Mi torna alla mente un saggio che studiai ormai venti anni fa all’università, credo fosse un computo del 1600 che metteva in fila le ferite da arma bianca nelle grandi città europee dove Roma figurava tra le prime. Penso ai grandi fatti di cronaca nera, da quelli prima della vicenda del Canaro fino a quelli avvenuti negli ultimi anni. Sono cambiate le periferie, sono cambiati gli attori, il movente. La violenza è rimasta. Penso al delitto Varani che tempo fa ha riempito le pagine dei giornali. Credo abbia molti punti in comune con la vicenda della Magliana per l’efferatezza del crimine, per la violenza protratta e per la spinta centripeta data dalle sostanze assunte dagli assassini. Probabilmente se nel caso del Canaro avesse vinto l’ipotesi di totale infermità mentale dovuta all’abuso di cocaina, lo stesso impianto sarebbe stato usato anche dagli avvocati di Marco Prato e Manuel Foffo. Nel delitto Varani vediamo però una periferia diversa, non c’è acqua che scorre ma carcasse metalliche, la tangenziale ha sostituito il Tevere, il movente sembra inesistente, infinitamente piccolo rispetto a quello della Magliana, due attori piccoli, piccolissimi, confusi.

AAS: Tu credi alla versione di De Negri, ti sei immedesimato in lui; la magistratura lo ha prima inchiodato alle sue responsabilità e poi il carcere lo ha riabilitato, almeno gli occhi della parte che stava con lui. Quali sono gli aspetti della sua personalità che ti hanno colpito maggiormente?

LM: Lavoro a questo romanzo dal 2012 e uno dei problemi più grandi è stato proprio credere, è stato cercare la verità. La cronaca del tempo si appiattì tutta sul noto memoriale dell’assassino, nonostante il medico legale e gli inquirenti già poco tempo dopo l’arresto l’avessero confutato in gran parte, nonostante in tanti indicassero un altrove dove cercare i veri carnefici. L’unica maniera per sfuggire a questa deriva poliziottesca della “verità” e alla conventicola del “credere” è stata proprio quella di muovere dal racconto dell’assassino, dalla narrazione che fece prima e dopo il memoriale: sui quotidiani, negli interrogatori, tra le pagine del processo. In questi anni in molti si sono immolati nella narrazione dell’omicidio della Magliana, dai giornalisti che per primi arrivarono nella discarica dove venne trovato il pugile ai poliziotti che inchiodarono l’assassino. In pochi hanno tentato di ricostruire la voce dell’assassino, di entrare nella sua testa, di permettere anche al protagonista di questa storia di raccontarsi. Io ci ho provato e la narrazione in prima persona mi è sembrata l’unica via percorribile nonostante fosse un’immedesimazione difficile e dolorosa. L’idea che mi sono fatto è di un uomo che Roma ha inghiottito e poi rigettato. Una vicenda che poteva capitare a chiunque.

AAS: Prossimi progetti narrativi?

LM: Parallelamente alla stesura di questo romanzo ho raccolto tutto il materiale per una storia nera sulla nascita della sottocultura musicale elettronica nei primi anni novanta, gli anni in cui i djs italiani e soprattutto romani portarono in tutto il mondo la musica che veniva prodotta nei garage dalle etichette indipendenti. In quegli anni in molti perdemmo l’innocenza. Potrebbe intitolarsi “Il suono di Roma”.

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