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Democrazia liberale possibile solo entro i confini nazionali: le 21 lezioni di Harari per il XXI secolo

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“Una comunità nazionale è qualcosa di assai più profondo di una collezione di individui che si tollerano reciprocamente”

“Come le élite sovietiche alla fine degli anni ottanta del Novecento, i liberali non comprendono come la storia abbia potuto deviare dal suo corso preordinato, e non dispongono di un altro riferimento per interpretare la realtà”. Così Yuval Noah Harari, nel suo ultimo libro, “21 Lezioni per il XXI Secolo” (Bompiani) avanza un’ampia riflessione sulla crisi della democrazia liberale e la perdita di fede nei confronti della narrazione che ha dominato la politica globale dal Dopoguerra ad oggi.

È il tramonto del XX secolo quando il liberalismo sembra aver superato la battaglia ideologica con fascismo e comunismo divenendo un mantra globale, l’unica ricetta capace di garantire libertà, diritti, pace e prosperità, relegando ogni altra soluzione dalla parte sbagliata della storia.

È il 2008 quando la crisi finanziaria globale provoca un’ondata di rabbia e delusione nella popolazione occidentale e la disillusione nei confronti della narrazione liberale inizia a serpeggiare fra le masse.

Sono trascorsi dieci anni e “il sistema democratico sta ancora cercando di capire che cosa lo ha colpito e riesce a malapena ad affrontare i colpi successivi”.

Rivoluzione informatica e biotecnologica, abbandono del sogno multiculturale dell’Occidente, realtà aumentata e progressiva perdita di contatto col corpo umano, bioterrorismo, collasso ecologico, sono solo alcuni degli elementi con cui nel futuro, secondo Harari, la democrazia liberale dovrà fare i conti per reinventarsi in una forma radicalmente nuova, se vuole evitare che gli esseri umani finiscano per vivere in una dittatura digitale.

Se il bene più prezioso in economia saranno le informazioni, per le quali occorrerà sviluppare un nuovo metodo di tassazione e i governi attenderanno che un algoritmo approvi budget e riforme, a mutare sarà prima di tutto il mercato del lavoro, dove l’intelligenza artificiale ha superato l’uomo anche in attività intuitive.

L’essere umano è stato hackerato – provoca l’autore – i governi dovranno tutelare i lavoratori e non i posti di lavoro, sarà quasi impossibile sviluppare un sentimento corporativo, perché le professioni nasceranno e scompariranno nel giro di una decina d’anni.

Fra le soluzioni alla perdita di posti di lavoro Harari avanza quella del reddito minimo universale, valida anche per arginare potenziali rivendicazioni populiste.

Ma mentre governi e policy makers si interrogano su come modificare gli assetti politico-istituzionali, la gente comune ha l’impressione di essere sempre più irrilevante e cerca di usare quel che resta del proprio potere prima che sia troppo tardi. Chi ha votato a favore della Brexit o di Trump ha perso fede nella globalizzazione, ma crede ancora nella democrazia liberale, ritenendo però che questa possa attuarsi soltanto entro i confini nazionali.

Al nazionalismo Harari strizza un occhio a patto che non sfoci in una sorta di ultranazionalismo sciovinistico, ritenendo “un errore pericoloso credere che senza nazionalismo vivremmo in un paradiso liberale”, e chiedendosi se il suo ritorno sia solo un modo di evadere dalla realtà o possa offrire soluzioni concrete ai problemi del mondo globale.

Resta il problema dell’autorità, che dopo essersi spostata dal divino all’umano potrebbe spostarsi ora agli algoritmi dei big data, condannando l’idea stessa di libertà individuale e aprendo le porte ad uno scenario in cui gli algoritmi capiranno e controlleranno i sentimenti, che saranno manipolabili da istituzioni, aziende, agenzie governative. L’uomo finirà per fidarsi più degli algoritmi che di se stesso per scegliere cosa studiare e chi frequentare, o per comprendere i propri gusti sessuali: il dramma decisionale delle nostre vite passerà in mano all’intelligenza artificiale.

Buone notizie per i filosofi invece, le cui competenze diverranno fondamentali per tradurre problemi di filosofia etica in pratiche soluzioni di ingegneria, come nel caso delle automobili a guida autonoma, delle quali bisognerà impostare gli algoritmi secondo principi moralmente discutibili (in caso di incidente, salvo il conducente o i bambini che sto per investire?).

A livello sanitario invece il nostro corpo potrà essere controllato da sensori biometrici ventiquattr’ore su ventiquattro (il paradiso degli ipocondriaci), rendendoci potenzialmente sempre malati.

A lungo andare il disordine prodotto da questi radicali cambiamenti potrebbe de-globalizzare il mondo e allargare la spaccatura fra le classi sociali, dividendo l’umanità in classi biologiche (con la bioprogettazione i ricchi potranno comprare la vita stessa) e lungo un asse verticale, in un mondo dove la casta superiore si autoproclamerà “civiltà”, difendendosi dai “barbari”, creando le società più diseguali della storia.

Se fino ad oggi le democrazie hanno funzionato meglio degli autoritarismi perché garantivano un sistema di scelta delle classi dirigenti più efficiente in quanto basato su una maggiore circolazione di informazioni, ora, con l’intelligenza artificiale, che è per costituzione centralista e non democratica nel gestire il potere informativo, potrebbe avvenire l’esatto contrario. Un futuro inquietante, non troppo diverso da “1984” di Orwell o dal “Mondo Nuovo” di Huxley.

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