Recensione di Patrick Bateman
Pubblicato per la prima volta nel 1973, poco dopo il suicidio del suo autore, “Dissipatio H.G.” (titolo mutuato dal filosofo Giamblico, che sta per “dissipatio humani generis”, letteralmente “evaporazione del genere umano”) è l’estremo, disperato nihil sull’esistenza posto da Guido Morselli.
Quest’ultimo è stato tanto sfortunato in vita, quanto fortunato post-mortem (per quanto possa valere): ignorato spietatamente da gran parte dell’intellighenzia dell’Italia del Dopoguerra, ha collezionato più rifiuti che apprezzamenti, accusando di scorrettezza e mancanza di etica un gran numero di case editrici. Famose sono state le bocciature del suo “Il comunista” da parte di Italo Calvino, tacciato di scarsa autenticità e di “Contro-passato prossimo” da parte di Carlo Fruttero, banalmente liquidato come poco convincente. Per fortuna, grazie ad Adelphi, è stato possibile riscoprire questo scrittore camaleontico e colto, capace di spaziare fra gustose ucronie storiche (“Roma senza papa” e il già citato “Contro-passato prossimo”) e ambiziose ricostruzioni di amara satira borghese in grado di rivaleggiare e vincere persino contro il Moravia più ispirato (“Un dramma borghese”).
“Dissipatio H.G.” però non è né l’uno, né l’altro, e l’ho scelto proprio perché rappresenta la catabasi di un uomo, prima che di un autore, stanco della continua frustrazione arrecatagli da un mondo nel quale ha provato a farsi conoscere e riconoscere, senza ottenere mai (dovuta) considerazione. Leggibile a diversi livelli, questo romanzo-non romanzo pregno di controllate ma vivide tendenze autodistruttive, può essere tanto un’allegoria di un inferno in Terra al quale il protagonista – già morto – è condannato, quanto una sorta di cupa opera esistenziale di fantascienza post-atomica che ricorda il Matheson più pessimista (“Io sono leggenda”) o il Robert Heinlein più radicale (“Straniero in terra straniera”).
Più puntualmente, però, “Dissipatio H.G.”, al di là della sua suggestiva cornice e delle dinamiche interpretative, è una lucida disamina della mente di un uomo che ha lasciato in una valle di rancore e solitudine ogni ambizione e desiderio. Le giornate del protagonista scorrono grigie, solo saltuariamente infastidite da interrogativi sulla totale assenza di altre forme di vita (?) ad eccezione di lui. Questa routine soffocante, inframmezzata da riflessioni profonde che spaziano dalla letteratura alla musica, non è vista come una privazione ma come una rassegnata consapevolezza di ciò che è realmente l’uomo, vale a dire un essere vivente tra gli altri esseri viventi. La lettura strettamente “biologica” della vita umana sulla terra di fatto non è altro che questo: nasci, vivi per un determinato periodo (che siano dieci oppure cento anni, sicuramente un tempo trascurabile rispetto alla marcia della Vita sul pianeta) e poi muori, cedendo il passo ai tuoi simili.
Ecco, forse è proprio questa continuità che il nostro protagonista vorrebbe evitare. Egli vorrebbe scomparire, evaporare con tutti i suoi simili, discendere – oppure ascendere, chi può dirlo! – verso un aldilà che non contempla né paradisi, né inferni, né Campi Elisi né Ade, ma solo una lattiginosa e opalina obsolescenza, sublimando e riducendo a zero ogni emozione e ogni sentimento.