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Ecco come il sistema britannico è rimasto immune ai partiti anti-sistema

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Estratto dal libro di Daniele Meloni “Boris Johnson. L’ascesa del leader conservatore e il Regno Unito post-Brexit” (Giubilei Regnani, 2021), Capitolo 3, “Un Regno ancora unito?”, pagg. 184-185

Per quanto Nigel Farage e il suo UKIP abbiano giocato un ruolo centrale nel dare sfogo all’ondata di sdegno per lo scandalo delle spese degli MPs, alla montata del nazionalismo inglese, all’euroscetticismo, al sentimento popolare contro l’immigrazione incontrollata – sfruttato magistralmente dai Leavers al referendum attraverso una martellante campagna volta a dimostrare ai cittadini come l’Unione europea fosse pronta ad accogliere la Turchia al suo interno – ad incanalare il consenso su questi temi, e ad approfittare della loro salienza negli orientamenti di voto degli elettori, è stato lo storico partito di governo e dell’establishment britannico, il Partito Conservatore.

Il sistema elettorale britannico first-past-the-post, maggioritario uninominale sul singolo collegio, protegge, infatti, lo status quo e i partiti che sono già parte del sistema politico e dell’arco parlamentare. Lo UKIP ha vinto le elezioni europee nel 2009 e nel 2014, così come il Brexit Party, fondato da Farage dopo la sua uscita dallo UKIP, ha vinto quelle del 2019. Ma le elezioni per il Parlamento europeo, oltre a raccogliere un’affluenza da sempre molto bassa, si caratterizzano per il sistema di voto proporzionale. Un sistema che è agli antipodi rispetto a quello utilizzato per eleggere il Parlamento di Westminster.

Ecco perché Farage, leader di un piccolo partito all’ombra dei due principali – il Labour e i Tories – non è mai riuscito a farsi eleggere alla Camera dei Comuni. Ecco perché lo UKIP ha eletto al massimo un deputato a Londra persino alle elezioni del 2015 dove è risultato il terzo partito con il 12,9 per cento dei consensi. Ecco perché, mentre altrove i sistemi di voto favorivano l’ingresso delle forze anti-sistema fuori dal sistema, in UK la legge elettorale maggioritaria ha favorito i due partiti principali che si alternano al governo dal secondo Dopoguerra a oggi, riassorbendo all’interno di essi le nuove tendenze e le nuove istanze portate avanti dallo UKIP. I Tories con la Brexit e, successivamente, con Johnson, hanno fermato l’emorragia di consensi alla loro destra, e anche il Labour ha dovuto rimettere al centro il suo senso di appartenenza alla nazione dopo l’esperienza di Jeremy Corbyn.

Il sistema britannico si è mostrato vulnerabile al populismo, ma lo ha efficacemente inglobato nei due partiti che, insieme, ottengono oltre l’80 per cento dei voti espressi dai cittadini. Probabilmente, con un sistema che premiasse maggiormente le formazioni minori e fosse incline alla creazione di governi di coalizione – nel Regno Unito ce n’è stato uno negli ultimi 40 anni – il sistema politico anglosassone avrebbe conosciuto una deriva assembleare dello stesso tipo di quelle conosciute solitamente in Italia e Spagna. Il Partito Conservatore si è fatto portatore del cambiamento richiesto dagli elettori: l’establishment si è compattato e ha risposto con un ricambio di uomini e di idee ma non ha tradito se stesso.

Il problema è che mentre in Inghilterra i Tories riescono a intercettare il consenso di questi elettori, nelle altre home nations – e in particolare in Scozia e Irlanda del Nord – la questione appare molto più difficile e complessa.

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