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Ecco come Martino Cervo fa a pezzi il vecchio establishment politico, mediatico, culturale. E certi liberali “ufficiali”…

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È uscito sabato scorso, in abbinamento con La Verità (lo si può tuttora richiedere in edicola), un saggio di Martino Cervo (“Il populismo non esiste”, con prefazione di Maurizio Belpietro, e con il significativo sottotitolo “La dittatura dei competenti alla prova delle Europee”) che merita di essere letto e conservato. 

Non si tratta di un instant-book confezionato in fretta e furia in vista del 26 maggio, e nemmeno di un pamphlet animato da gratuita polemica. Anzi, con uno stile pacato, equilibrato, razionale, in molti passaggi anche sorridente, Cervo si fa carico di rivolgersi a una platea di intellettuali, commentatori, analisti, politici mainstream, che – diciamolo – da anni non ne azzeccano una. Da Brexit a Trump, dall’ascesa sovranista in Europa a Bolsonaro, non c’è “partita” su cui non abbiano sbagliato analisi, posizionamento e pronostico. Eppure, pretendono ancora di “spiegarci” tutto, specie ciò che non sono stati in grado di capire in anticipo. 

Meritoriamente, Cervo non infierisce, ma ragiona, mostrando a questi interlocutori i loro due errori fatali. Primo: la pretesa di giudicare il popolo, anziché ascoltarlo. Secondo: l’illusione ottica di demonizzare i leader vincitori, anziché comprendere le esigenze popolari di cui essi si sono fatti interpreti. 

Nasce da questo doppio errore nella diagnosi un altrettanto doppio errore nella terapia: e cioè, per un verso ritenere che questa stagione sia una parentesi inevitabilmente destinata a chiudersi (come se il giorno dopo potesse tornare il piccolo mondo antico di prima), e per altro verso credere che tutto possa essere risolto da un’investitura – fatalmente non democratica – di qualche mandarino “competente”. Sta proprio qui, nella radiografia che Cervo fa della “casta” competente, dei suoi risentimenti, del suo distacco e perfino del suo disprezzo nei confronti del popolo, il cuore del volume. 

Si tratta dunque di un saggio prezioso, ricco di riferimenti alla politologia più colta di questi anni, e insieme capace di dare ordine e offrire una chiave di lettura per tempi confusi ma interessanti, come quelli che stiamo vivendo. Ed è anche un appello a (ri)pensare, difendere e promuovere la democrazia, che non può essere guardata con scetticismo quando i risultati elettorali non piacciono a certe élite. Al contrario, Cervo ci fa capire che tutti dovrebbero sentire con ancora maggiore urgenza l’esigenza di convincere i cittadini, di renderli protagonisti della discussione pubblica, anziché trattarli come scolari da ammaestrare. 

C’è infine una parte conclusiva che interpella i liberali. Chi scrive – piccolo liberale legno storto – da tempo ritiene che quella parola stia tragicamente diventando inutilizzabile, tale è lo scempio che ne è stato fatto da tanti liberali “ufficiali”. Cervo ha drammaticamente ragione, e la sua polemica ha l’effetto di una lama nel burro. Il liberalismo classico non ha nulla a che vedere con le saccenti caricature incarnate da troppi liberali attuali, impegnati ad assegnare e ritirare patenti, a dare voti e pagelle al popolo, a ritenere che – non si sa per quale diritto divino – gli altri debbano chiedere a loro il permesso su cosa pensare e per chi votare. 

Le domande di Cervo al riguardo sono così profonde e “sfidanti” che è azzardato provare ad abbozzare un tentativo di risposta. Si può forse annotare – in totale consonanza con l’autore, a me pare – che i liberali “ufficiali” siano venuti meno a due capisaldi. Il primo, di metodo: il liberalismo classico era per definizione empirico e induttivo, non pretendeva di calare dall’alto verità rivelate, credeva nelle approssimazioni successive e nella correzione costante dei processi. Invece, costoro hanno trasformato il liberalismo in un catechismo laico, in una religione dogmatica e intollerante, in una insensata fede nell’inevitabilità del “progresso”. Il secondo, di sostanza politica: quando dei leader liberalconservatori hanno vinto in modo spettacolare (penso a Thatcher e Reagan), lo hanno fatto perché si sono coraggiosamente posti in una posizione anti-sistema, perché hanno saputo sfidare le élite progressiste (e non solo quelle) del loro tempo. Al contrario, molti sedicenti liberali contemporanei si sono accomodati al fianco dell’establishment, in qualche caso si sono perfino accucciati ai suoi piedi, diventando – nella migliore delle ipotesi – un ornamento, un ninnolo, un fiore all’occhiello del vecchio sistema. Da spazzare via: sia il vecchio sistema, sia loro. Ha ragione Cervo. 

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