Una nuova guerra civile in America è possibile: il messaggio del film di Garland

In un’epoca di massima polarizzazione dell’opinione pubblica e alla vigilia di uno dei voti più difficili di sempre, “Civil War” il film giusto al momento giusto

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“Civil War” di Alex Garland è un film che ha iniziato a far parlare molto di sé e a destare sospetti fin dalla diffusione del suo primo trailer, a dicembre. In un momento in cui tutto è complotto, è ovviamente nata una teoria della cospirazione anche su questa pellicola prodotta da A24. La tesi? Che il governo, d’accordo con Hollywood, stia preparando psicologicamente la popolazione alla guerra civile.

Come si vede sin dalle premesse, fantasia e realtà si sovrappongono perfettamente in questa epoca turbolenta, di massima polarizzazione dell’opinione pubblica americana e alla vigilia di uno dei voti più difficili di sempre. E quindi, complotto o no, sicuramente “Civil War” è il film giusto uscito al momento giusto.

Un reportage di guerra

Ma di che cosa parla “Civil War” e perché colpisce così tanto? È la storia di una giornalista veterana, Lee (interpretata dalla sempre più brava e sottovalutata Kirsten Dunst) che, al culmine di una seconda guerra civile americana, capisce che il presidente sta perdendo, nonostante tutta l’informazione ufficiale dica il contrario. E quindi vuole fargli un’ultima foto da vivo e un’ultima intervista.

Nonostante gli aerei non volino e tutte le autostrade siano chiuse, si imbarca in un difficile on the road, per raggiungere una Washington già assediata. E per farlo recluta uno spericolato corrispondente della Reuters (Wagner Moura), suo compagno di tante avventure. Che però, a sua volta, decide di portare con sé anche un anziano e saggio reporter di guerra (Stephen McKinley Henderson) e una ragazza impaziente, e anche un po’ tanto invadente, che vuole diventare fotoreporter (Cailee Spaeny).

Si tratta, dunque, di un film su un reportage di guerra che ricorda molto alcuni classici del genere, come “Un anno vissuto pericolosamente”, “Sotto tiro”, “Salvador” e “Urla nel silenzio”. I quattro personaggi rappresentano quattro modi diversi di fare giornalismo. Lee è depressa, non tanto perché, nella sua carriera, ha visto cose che noi umani nemmeno immaginiamo, ma perché ritiene di aver fallito nella sua missione: “Ad ogni scatto di guerra, io vi dicevo: non fatelo”. E invece il suo stesso Paese è precipitato nell’abisso della violenza che lei aveva visto e documentato nel resto del mondo.

Anche qui è possibile

Attraverso Lee, il regista Garland vuole veicolare un messaggio forte e chiaro: potrebbe succedere anche qui. L’intento è esattamente quello del romanzo di Sinclair Lewis “Qui non è possibile” (1935) dove lo scrittore si immaginava come anche gli Usa potessero diventare una dittatura, mentre fascismo, comunismo e nazismo già dominavano in Europa.

Negli Usa, negli anni ‘30, si ritenevano immuni da quel pericolo. Ma non lo erano. Le stesse tendenze, diffuse in Europa a sostegno delle dittature, erano presenti anche negli Usa e una dittatura sarebbe stata possibile, se solo fosse emerso l’uomo sbagliato al momento giusto. Gli Usa, da un secolo e mezzo, si ritengono immuni dalla guerra civile e sono lontani fisicamente da tutte le guerre. E invece…

Per mostrare a cosa gli americani andrebbero incontro, in caso di guerra civile, Garland adotta uno stile quasi documentaristico, benché ritragga uno scenario di fantapolitica. Già la prima scena di guerra che vediamo, una scaramuccia fra governativi e Boogaloo Boys è di un realismo disturbante.

In guerra emergono i caratteri peggiori, sadici ed estremisti hanno l’occasione per dare libero sfogo alle loro fantasie represse. E così abbiamo il benzinaio che tortura l’ex compagno di scuola perché è accusato di “sciacallaggio”, il nazionalista che riempie le fosse comuni di “non americani”, i fanatici che si trasformano in attentatori suicidi, le fucilazioni sommarie di prigionieri, ma anche regioni intere che vivono come se la guerra non esistesse. E che non vogliono neppure saperne di partecipare.

I nuovi unionisti e secessionisti

Ma da chi viene combattuta questa guerra e perché? Il regista ce lo lascia solo immaginare, ci dà pochissimi indizi. Innanzitutto ci racconta una guerra fra Stati, come la vecchia, unica vera Guerra Civile Americana del 1861-65. Per evitare una ripetizione troppo evidente, chiama le forze secessioniste “Ovest” (e il loro esercito è quello delle Western Forces). Ma in questo Ovest è compreso in realtà anche tutto il vecchio Sud, a partire dal Texas che, assieme alla California, ha dato vita alla nuova secessione, a cui ha aderito (forse, perché le notizie sono confuse) la Florida.

Già la scelta, non casuale, di mettere assieme Texas, Stato conservatore per eccellenza, con la California, epicentro del progressismo nel mondo, ci suggerisce che Garland non vuole parlarci dell’America di oggi, ma di un’America del futuro in cui la geografia politica è molto cambiata. E quindi ha cercato di evitare polemiche sterili fra conservatori e progressisti, nessuno dei quali si può identificare con i nuovi unionisti o con i futuri secessionisti (si riconoscono solo i Boogaloo, per le loro caratteristiche camicione hawaiane…).

Le origini

Visto che la trama è ambientata a guerra inoltrata, le sue origini si apprendono solo in alcuni dialoghi fra i giornalisti e da indizi sparsi qua e là. È però assolutamente chiara la causa immediata del conflitto: un presidente che rischia di trasformarsi in dittatore. È un comandante in capo debole, insicuro, ma aggrappato al potere in modo ossessivo, un presidente che scioglie l’FBI, ma non esita a usare l’esercito contro le proteste civili.

E quando cerca di restare per un terzo mandato, allora gli Stati secedono. Non possiamo spoilerare nulla, non vi possiamo dire chi vince e chi perde, chi vive e chi muore, ma possiamo dirvi solo che all’origine della guerra c’è il caro vecchio principio di resistenza alla tirannide. Ed è questa l’America che ci piace, con buona pace dei complottisti.

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