Recensione a cura di Patrick Bateman
George A. Romero non ha certo bisogno di presentazioni: regista di alcuni fra i più importanti horror della storia del cinema, padre putativo della saga degli zombi iniziata nel lontano 1968 con “La notte dei morti viventi” e terminata nel 2009 con “Survival of the Dead” e fonte di ispirazione per tanti eponimi letterari, cinematografici e televisivi. È da diversi anni che il cineasta statunitense sogna di cimentarsi in un romanzo, un’opera senza vincoli al di fuori della fantasia stessa, che sia in grado di mettere nero su bianco le sue ossessioni apocalittiche di un mondo dove i morti iniziano a camminare sulla Terra. Tuttavia, nel 2017, a lavoro ancora incompiuto, un aggressivo cancro ai polmoni conduce alla morte (quella vera, senza ritorno) questo poliedrico artista. Ci vorrà l’impegno di un suo fan d’eccezione, lo scrittore Daniel Kraus, già al lavoro con il premiato regista Guillermo Del Toro in “Trollhunters” e “La forma dell’acqua”, per ritirar fuori dalla tomba, è il caso di dirlo, le inquietanti visioni di Romero. Ne è scaturito “I morti viventi” (La Nave di Teseo, 2020), un ponderoso volume di quasi settecento pagine, un libro che come nella miglior tradizione romeriana non è terrificante solo nell’esposizione cruda e violenta di viscere e menomazioni, ma lo è nella sua raffinata filigrana, una critica sociale feroce che mette nel mirino un Paese diviso e divisivo come gli Stati Uniti e l’atavico e immotivato disprezzo dell’uomo nei confronti della natura.
Spaziando con l’immaginazione, totalmente libera da limiti di budget, i due scrittori analizzano questa pandemia fatta di corpi macilenti e apparentemente indistruttibili che si muovono divorando e contagiando chiunque si metta sulla loro strada, servendosi di diversi punti di vista e modificando la prospettiva capitolo dopo capitolo.
Nel corso della narrazione si seguono le gesta di un medico legale e della sua assistente; i report di una donna barricata nell’ufficio censimenti degli Stati Uniti, le peripezie di un anchorman televisivo; la fuga di una giovane dai sobborghi multietnici e poveri ai margini della grande città industrializzata; la gestione della crisi e del panico su una portaerei da parte del suo comandante e la conquista dell’inutile e del superfluo di un uomo d’affari frustrato e dalla lingua incendiaria. Questi e altri personaggi, che seguiranno un complesso intreccio di eventi sino a ritrovarsi più o meno tutti oltre il confine canadese, in una società primitiva e utopistica senza padroni né armi, sono i protagonisti di un romanzo corale dove istinto di sopravvivenza, demoni interiori, perdita e sacrifici spadroneggiano lasciando il lettore sospeso in un limbo tra tensione e amarezza. I morti viventi guadagnano pian piano terreno, costringendo i vivi a nascondersi, a combattere, a fare i conti con le privazioni e con il ritorno a uno stato naturale al quale non sono mai stati abituati.
La rivolta dei morti – protagonisti di un’operazione di restyling e resi ancor più difficili da eliminare – un inizio in medias res mai interamente spiegato nel corso del libro che ha senz’altro un significato allegorico: gli zombie (non solo umani, ma anche animali di ogni genere) visti come golem (l’informe gigante di argilla della mitologia ebraica) che puniscono un’umanità avida e irrispettosa, incapace di convivere nello stesso habitat delle altre forme di vita. Questo è l’ultimo messaggio inviato da Romero prima di passare al di là, un messaggio semplice ed ecumenico, allo stesso tempo fermo invito e duro ammonimento.