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“Il Gioco dell’Angelo”, di Zafon: il più gotico della saga di Barcellona, fra amore, morte e religione guerriera

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Il terzo capitolo della saga barcellonese di Zafon (che è in realtà il secondo), a parere di chi scrive è forse il più bello, senza nulla togliere ovviamente al capostipite, “L’Ombra del Vento”, col quale lo scrittore catalano ha avuto il successo mondiale che meritava. Qui c’è un’atmosfera gotica impreziosita da un personaggio, lo scrittore David Martin, probabilmente più riuscito. C’è una città dove le sue ombre sono più lunghe, le sue piogge più fitte e le sue strade più minacciose. Dove l’inverno la fa da padrone, dove il mare che bagna la Barcelloneta e il porto è messaggero di sventura e malinconia ma sempre velata da quell’aura magica che solo Zafon ha saputo dare alla sua città. Qui poi c’è una suggestiva e per certi versi geniale trovata della trama. Lo scrittore Martin, malato terminale, viene avvicinato da colui che, a tutti gli effetti, si presenta come una specie di demonio il quale gli promette la guarigione in cambio del suo talento. Per cosa? Per scrivere quello che vuole far diventare un nuovo testo sacro su cui fonderà la sua religione; sembra proprio che il demonio abbia scelto uno dei tanti poveri cristi pieni di talento ma carenti di opportunità e lo abbia costretto a vendere l’anima divenuta una mercanzia, ovvero la sua scrittura creativa.

La grandezza di Zafon, poi, sta nello sviluppo del testo sacro, di questa Lux Aeterna che Martin scopre esser già stata scritta da qualcuno prima di lui, caduto, come lui, nella trappola di questo demonio che chissà da quanto se ne va in giro per i vicoli di Barcellona a importunare scrittori falliti (e a uccidere chi gli si mette contro). Il testo sacro non può che includere la venuta di un messia tutt’altro che pacifico. Martin inventa per il suo principale, per il suo sinistro committente, un dio guerriero che vuole sottomettere gli infedeli con la violenza (vi ricorda qualcosa di recente relativo all’attualità?). È un dio che vuole ubbidienza, che impone la fede cieca e che addita il nemico in colui che non si uniforma a un sistema di valori. Nulla di nuovo sotto il sole, certo. Ma dopo migliaia di anni in cui le religioni monoteiste (e oggi una in particolare) continuano a imporre questa roba qua, fa un po’ effetto sentirselo spiattellare così, soprattutto se il committente di cotanta Fede è colui che nella Cabala viene chiamato l’Avversario.

Martin, ovviamente, macerato dall’amore di una donna sfuggente che viene e va, da un’esistenza da scrittore bohémien e dalla paura di riperdere la salute, si disprezza per ciò che ha accettato di fare e a un certo punto tira fuori l’orgoglio e si ribella al suo committente. Ci fermiamo qui con la trama, naturalmente. Ma il consiglio è di perdervi in queste quasi 700 pagine in cui ritroverete la famiglia di librai Sempere, compreso Daniel, i protagonisti de “L’Ombra del Vento” e poi del “Prigioniero del Cielo” e dell’ultimo della saga, “Il labirinto degli Spiriti” (del quale ovviamente parleremo a suo tempo). Il consiglio è quello di lasciarvi catturare dalla malia di una Barcellona anni ’20 del secolo scorso in cui l’autore fa muovere i personaggi, alle prese con una rivoluzione tecnologica agli albori, con l’esposizione universale, coi prodromi del franchismo e con una umanità scoppiettante come solo la letteratura ispanica sa descrivere. Un romanzo in cui, ancor più che nei precedenti, l’amore per i libri, per le storie e la letteratura popolare disseminano di sé tutte le pagine. Un romanzo nel romanzo, un romanzo per il romanzo. Che ci fa comprendere ancora di più quando abbiamo perso con la prematura scomparsa di questo straordinario scrittore catalano. A cui, scandalo degli scandali, Hollywood non si è degnata di dedicare nemmeno la minima attenzione. Almeno le produzioni spagnole capiranno di avere un tesoro inestimabile per le mani, anzi per gli occhi di chissà quanti telespettatori?

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