Recensione a cura di Patrick Bateman
Nel 2012 la casa editrice Mimesis pubblica in italiano un agile e curioso pamphlet che oltralpe ha riscosso un gran successo. L’autore, il giornalista e professore universitario Antoine Buéno, ha deciso di rileggere la parabola utopica dei Puffi – nati nel 1958 dalla matita di Pejo – ricercando in essa delle possibili assonanze con l’esperienza totalitaria nazista e stalinista.
Sì, avete capito bene: i Puffi, gli omini azzurri che “puffano” qua e là, come incarnazione di una società totalitaria e liberticida. Se “Il libro nero dei Puffi” fosse uscito in questa contemporaneità assetata da un lato di eliminazione coatta di qualunque radice culturale non in linea con i nuovi canoni del politicamente corretto e dall’altra di becero complottismo, sarebbe accaduto un vero pandemonio. Già immagino qualche super-informato complottista associare il rosso e barbuto Grande Puffo a una terribile incarnazione di Karl Marx o vedere nei buffi copricapi bianchi dei Puffi un’anticamera di Ku Klux Klan, ma altrettanto immagino paladin* dell’egalitarismo tanto al chilo criticare aspramente la figura di Puffetta perché foriera di un arcaico e irrispettoso stereotipo femminile. E invece, fortunatamente, questo libro è uscito nel 2012 e non è stato subissato da una ciclopica ondata di sciocchezze. L’opera parte da una frase presa in prestito dal serial francese anni ’60 “Les Shadoks”: “Meglio esercitare la propria intelligenza con le scemenze, che la propria scemenza con cose intelligenti”. L’autore, forte di questo saggio consiglio, passa in rassegna la produzione del papà dei Puffi Pejo (al secolo, Pierre Culliford, 1928-1992), e mette in evidenza tutti gli aspetti che potrebbero risultare doppi, strani o inquietanti nella vita del loro allegro villaggio.
Intendiamoci, Buéno non ha la pretesa di essere il primo che si è cimentato nel voler trovare doppi sensi o ambigue chiavi di lettura in questo fortunato fumetto (divenuto poi cartoon, film e oggetto di merchandising, quello sì, totalizzante), ma vuole mostrare come determinate chiavi di lettura non possono essere disancorate dal periodo di riferimento in cui nascono e vengono a formarsi. Guardare con gli occhi di oggi un’opera di ieri ne falsifica l’essenza se si pretende di volerne dare un giudizio avulso dal contesto, mentre può essere sensato valutarne, al contrario, lo spirito anticipatorio e visionario rispetto al futuro. L’autore ricostruisce in maniera certosina tutti i probabili riferimenti ambigui e si sofferma, ironicamente e senza alcun delirio da cancel culture, sull’ipotesi che la società dei Puffi sia una società che presenta tanto degli aspetti stalinisti quanto degli aspetti nazisti.
Dalla ripartizione rigida del lavoro, al disprezzo per il vil denaro e la proprietà privata, passando per un senso di esclusività dato da una omogenea differenziazione rispetto agli umani e fino ad arrivare alla caratterizzazione di alcuni singoli personaggi (Puffetta, la bionda bellezza ariana e Gargamella, dipinto con i classici tratti della propaganda antisemita, in voga tanto in URSS quanto in Europa occidentale), emerge un quadro affascinante ma mai moraleggiante o denigratorio. Si esclude infatti che Pejo, uomo equidistante da ogni forma di estremismo, volesse dare alla sua creatura una qualsiasi connotazione politica. Al massimo, il suo intento era dipingere una società utopistica avulsa dal tempo e dai perturbamenti esterni. Ma del resto, anche il Comunismo e il Nazionalsocialismo proponevano, in linea teorica, una società utopistica basata su degli assoluti che, alla prova pratica, si sono sgretolati prestando il fianco al volto liberticida del totalitarismo. Il beffardo ragionamento di Buéno è tutto qui: non sono i Puffi a essere nazisti o comunisti, ma sono le visioni totalitariste a essere così semplici e semplificate da scontrarsi con una realtà ben più complessa.