“La distruzione”, di Dante Virgili: cocktail micidiale di puro e semplice odio

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Recensione di Patrick Bateman

La letteratura mondiale è piena di casi letterari e libri più o meno oltraggiosi e molto spesso questi scandali portano con sé grande successo di pubblico, di critica o, nel migliore dei casi, di entrambi. Sgombriamo subito il campo da particolari equivoci: “La distruzione” (ripubblicato da Il Saggiatore nel 2016 dopo la prima, di difficile reperibilità, edizione Mondadori del 1970) non è stato un libro di successo ma lo si può a ben donde definire un vero e proprio caso letterario, e per più ragioni. In primo luogo è un romanzo (?) dichiaratamente filo-nazista, ma non filo-nazista come espediente letterario: a tutti gli effetti è stato scritto da un tizio, tale Dante Virgili (no, non è un grossolano pseudonimo dal retrogusto dantesco, si chiamava proprio così), che, oltre a essere avvolto nel mistero – non potendomi dilungare sulla ricostruzione della vicenda editoriale del romanzo in questione invito alla lettura di “Cronaca della fine” di Antonio Franchini, edito da Feltrinelli – si lascia andare a un delirio sado-porno-nazi che non può lasciare indifferente nemmeno il più controllato e insensibile dei lettori, oggi come nell’Italia immediatamente post-sessantottina. Elucubrazioni mentali, apologhi febbrili e vaneggianti, appassionati slanci e una nichilistica verve distruttiva e autodistruttiva che si sfilaccia in maniera malsana in una prosa che sembra più simile al flusso di coscienza di un pazzo pronto a esplodere che a un vero e proprio impianto narrativo.

Nella vita dell’anonimo protagonista, correttore di bozze presso un quotidiano e appassionato nostalgico del Terzo Reich, le giornate scorrono grigie e monotone, caratterizzate da una quasi totale incapacità di vivere nell’hic et nunc dell’Italia degli anni ’60 e da un’inettitudine affettiva che si potrebbe definire sconsolante se non fosse costantemente inframmezzata da commenti e fantasie perverse all’insegna di un sadismo insano e sprezzante nei confronti non solo delle donne, ma degli esseri umani in generale. E infatti il punto attorno al quale ruota tutto il romanzo è proprio questo: puro e semplice odio. Non importa che il protagonista sia un ammiratore e un sostenitore del nazismo, tant’è che non prova neanche per un attimo a lasciarsi andare a dubbie ricostruzioni sui “meriti” di Hitler e dei suoi seguaci: egli è un semplice seguace del male per il male e cosa incarna il male meglio di una delle dittature più feroci del ‘900?

Se fosse ancora vivo, sarebbe molto probabilmente un ammiratore delle gesta dell’Isis o di Al-Qaeda, o si esalterebbe di fronte alle mattane di un Kim Jong Un qualsiasi. Virgili, tuttavia, è un figlio del suo tempo, una scheggia impazzita di nichilismo e sehnsucht per la devastazione che si traduce nel desiderio di guardare una skyline deturpata (trent’anni prima degli attentati dell’11 settembre) e un mondo piagato da armi nucleari e sopraffazione al ritmo di marce militari e parate in uniforme.

Tempo fa, vedendo sempre i soliti nomi tra gli scaffali delle librerie e tra i vincitori di premi letterari sempre più inflazionati, parlavo con un amico di come la letteratura sia diventata sempre più rassicurante e controllata, attenta e scrupolosa nello scandalizzare sempre e solo fino a un certo punto. E poi mi sono ricordato di quest’opera, che è esattamente il contrario di ciò che fa discutere la giuria del Premio Vattelappesca e di ciò che si può trovare in bella mostra dal vostro libraio di fiducia. E, per me, tanto è bastato per scriverci due righe.

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