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“La famiglia”, di Ed Sanders e la bolla dell’estate del 1969: l’eccidio, il virus e le rivolte

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Quando Charlie Manson nel 1967 uscì di prigione, l’America era un posto diverso da quello che aveva lasciato. Veniva dalla McNeil Island, una prigione di massima sicurezza nello stato di Washington; nel 1960 una sentenza di dieci anni per sfruttamento della prostituzione lo aveva definitivamente incastrato. Da dieci divennero sette per buona condotta. In sette anni il boom economico e la rivoluzione culturale iniziata con la beat generation aveva trasformato gli Stati Uniti prima (e il mondo poi), in un luogo che gli sembrava alieno. I figli e le figlie della media borghesia si erano riversati nelle strade. Le ragazze della California vestivano con jeans e toppini e fiori in testa e i maschi in canottiera e sneakers, la chitarra e uno zaino in spalla in cerca di un senso che non fosse quello dei loro genitori tutto matrimonio figli ed elettrodomestici.

A Charlie non gli pareva vero. Lui aveva letto molto in carcere. Gli piaceva Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, col suo strano romanzo in cui diceva che gli umani li avevano creati gli alieni. Leggeva testi esoterici, testi sulla Programmazione Neuro Linguistica. Testi di Storia. Soprattutto, nel 1969, due anni dopo, ascoltava “Helter Skelter”, tratto da The White Album, il capolavoro dei Beatles che Charlie era convinto avessero composto per lui. “Helter Skelter” era il caos che sarebbe seguito alla rivolta dei “negri” d’America che, dopo aver sconfitto le istituzioni dei bianchi, si sarebbero impossessati del potere (vi ricorda qualcosa di attuale?); i bianchi, disperati, sarebbero andati da lui che nel frattempo aveva costituito coi suoi ragazzi e ragazze l’esercito di liberazione. Certo, loro erano una comune amorevole, si erano presi lo Spahn Ranch, un vecchio teatro di posa western all’aperto a nord di Los Angeles, coltivavano le loro cose, fumavano erba e si facevano di LSD, rubacchiavano gli scarti dai supermercati e andavano a cavallo. Però Charlie voleva che imparassero a maneggiare le armi, tutti, anche le sue ragazze. Che lo consideravano un dio, perché le aveva scopate convincendole di essere il loro padre; la riconciliazione col simbolo fallico, Freud, il mostro; con la famiglia istituzione. La sua, la Family.

C’è tanta roba in questo tomo di più di 600 pagine. “La Famiglia”, di Ed Sanders (Feltrinelli, 2018). Sanders era uno del movimento Flower Power. Col suo gruppo, i Fugs, quell’estate dell’amore e della morte, aveva suonato a Woodstock. Sanders ci racconta con minuzia e freddezza giornalistica la bolla dell’estate del 1969, l’estate in cui c’era l’asiatica, il virus respiratorio che fece due milioni di morti nel mondo e il mondo non se ne curava affatto relegandola in trafiletti in ultima pagina sui giornali (vi ricorda qualcosa?), una bolla fatta di pop, musica, amore, morte, droghe, guerra, rivoluzioni mancate, azzardate, rimandate. Ci racconta che Charlie era ossessionato dalla musica. Che Dennis Wilson dei Beach Boys, suo amico, accettò di prendere un suo pezzo “Cease To Exist” e metterlo su un album dei Beach Boys, “20/20”, cambiandogli testo e titolo perché troppo duro e facendolo diventare “Never Mean To Love”, non dandogli mai nemmeno un dollaro di diritti. Ci pone, soprattutto, la domanda delle domande: ma Charlie, il massacro in casa di Roman Polanski ai danni di sua moglie Sharon Tate e degli amici nella villa di Cielo Drive, e in quella dei coniugi La Bianca a Waverly Drive, lo ordinò perché arrabbiato dal rifiuto dei produttori della Hollywood musicale di pubblicargli il suo 33 giri, come promesso, e quindi per cieca vendetta, o perché voleva addestrare i suoi ragazzi alla guerra contro i neri/negri che avrebbero preso il potere di lì a poco dopo la rivoluzione dell’Helter Skelter? La risposta non la sapremo mai. Né Charlie la diede ai suoi biografi ufficiali o meno ufficiali che ipotizzarono tutto e il suo contrario.

Resta il fatto, la sua famiglia, Charles Tex Watson, Susan Atkins, Patricia Krenkwinkel e Linda Kasabian lo seguirono in tutto e per tutto. Uccisero per lui. Squartarono per lui. Negarono per lui. Si disegnarono la fronte al processo per lui. Non si pentirono mai. O quasi. E si sarebbero trasferiti con lui nel deserto del Nevada in attesa della chiamata dei bianchi per vendicare l’Helter Skelter, se una soffiata l’anno dopo per un furto d’auto non avesse dato la possibilità alla polizia di Los Angeles di arrestarli. E se non fosse stato per l’unica testimone “pentita” Linda Kasabian che, in cambio dell’immunità, spifferò tutti i dettagli sulle due notti dell’orrore di quell’agosto 1969. L’estate del virus dell’asiatica, di Woodstock che si svolse una settimana dopo i massacri, e della guerra in Vietnam. E delle rivolte razziali che non raggiunsero mai il loro apice nell’Helter Skelter che rimase soltanto un pezzo dei Beatles.

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la grande bugia verde