C’è un saggio (“La rivoluzione sovranista” di Marco Gervasoni, appena uscito per le edizioni Giubilei Regnani) di cui si raccomanda caldamente la lettura a chiunque voglia capire dove siamo. È una bussola utilissima per chi simpatizza per l’ondata sovranista, per chi invece la teme o ne diffida, e anche – sfumatura preziosa per Atlantico – per chi detesta le vecchie élites, per chi comprende le ragioni e i sentimenti della grande rabbia dei “dimenticati” (i forgotten trumpiani), ma desidererebbe una risposta politica più strutturata e meno emotiva.
Gervasoni è chirurgico nel farci capire che l’ascesa sovranista è avvenuta su due gambe. Per un verso, va considerata la grande recessione del 2007-2008, che ha fatto a pezzi la classe media, ha prodotto un impoverimento vero e generalizzato (altro che percezione…), ha precipitato nell’insicurezza la stragrande maggioranza dei cittadini dei Paesi occidentali. Via via, negli anni successivi, c’è stata una qualche ripresa, spiega Gervasoni, ma questa recovery, oltre che flebile, si è rivelata asimmetrica, nel senso che ha riguardato le classi top, trascurando un numero enorme di persone. E come si poteva pensare che un fenomeno così enorme restasse senza conseguenze politiche?
E poi c’è stata l’altra gamba, spiega l’autore, quella che troppi avrebbero voluto “amputare” (forse non solo metaforicamente): la politica delle identità, le guerre culturali, il senso del confine e della nazione, il “chi siamo”. Tutte cose che frettolosamente erano state archiviate e perfino esorcizzate da molti, e che il doppio innesco della crisi economica e dell’immigrazione fuori controllo hanno ridestato. E peraltro, ci fa capire Gervasoni, era e resta un illuso chi pensa di “sterilizzare” la discussione pubblica, di trasformare l’area politico-elettorale in uno spazio asettico, in cui degli (inesistenti) elettori iper-razionali stanno lì a misurare con il bilancino la credibilità di ogni riga dei programmi elettorali, a fare il conto delle coperture, e così via. Non è così che gli elettori votano.
Tutto questo (ecco la denuncia forte di Gervasoni) non è stato capito dalle vecchie élites, da un establishment imbolsito e incattivito, che ha preferito (da Brexit a Trump, da Bolsonaro a Orban, passando naturalmente per Salvini) demonizzare i vincitori e trattare da analfabeti gli elettori. Anziché sforzarsi di capire e di rispondere ad alcune esigenze, si è preferito un atteggiamento paternalistico e superiore.
Ne è stato il naturale pendant l’atteggiamento degli old media, sempre più screditati perché gemelli di quel vecchio establishment, incapaci di capire i nuovi codici, di porsi in comunicazione con quei ceti medi sofferenti, o – se non di condividerne l’agenda – almeno di capirla, di ascoltarla, di rifletterci su.
Per queste e molte altre ragioni, il saggio di Gervasoni è prezioso. Resta da capire, ma questa è un’equazione con un numero elevato di incognite, se i leader sovranisti, in giro per il mondo, oltre che essere stati espressi da un’onda e averla saputa cavalcare, sapranno a loro volta interpretarla in modo minimamente adeguato. Le domande di cui sono stati destinatari erano e sono spesso “negative”, nel senso che gli elettori che li hanno scelti sapevano cosa NON volessero PIÚ, mentre erano (e sono ancora) assai incerti sulle effettive richieste in positivo, su una pars construens che è tutta da impostare. Ai dirigenti sovranisti servirebbe molta cultura politica, e anche diversi tools tratti dalla cassetta degli attrezzi liberale. Giusto attaccare i liberal, giusto prendersela con il politicamente corretto, sacrosanto salvaguardare il contatto emotivo e sentimentale con l’incazzatura popolare: ma guai se, con l’acqua sporca, si butta anche il bambino di alcune soluzioni liberali classiche che potrebbero essere molto utili. La partita è ancora all’inizio.