Adnan Bey è il protagonista principale del bel libro di Jeremy Seal, “A coup in Turkey. A tale of democracy, despotism & vengeance in a divided land”, pubblicato di recente e dedicato al colpo di stato militare che estromise dal potere il Partito democratico turco il 27 maggio 1960.
Il Signor (Bey) Adnan, è Adnan Menderes, il primo ministro turco vincitore delle prime elezioni con il sistema pluripartitico nel 1950 e fondatore del Demokrat Parti, nato da una costola dell’allora partito unico repubblicano-kemalista (CHP). Idolo delle masse, specie le più conservatrici e tradizionaliste, Menderes diventa il punto di riferimento di tutti coloro che sognano una Turchia democratica in cui trionfi la libertà di espressione e in cui la stampa sia libera. Con la sua presenza al governo la laicità, bastione su cui i kemalisti hanno fondato la nuova Turchia indipendente, subisce una battuta d’arresto: l’autore racconta in modo esemplare il ritorno di Menderes dall’Inghilterra dopo una lunga convalescenza in seguito a un incidente aereo che poteva costargli la vita nei pressi dell’aeroporto di Gatwick, tra gli osanna di una folla rigorosamente osservante dei precetti dell’Islam e il sacrificio di alcuni animali reso in suo onore. Eppure, anche il filo-islamico Menderes, così come il suo successore dell’AKP, Recep Tayyip Erdogan, ha realizzato nel suo decennio alla guida del Paese (1950-1960) un ambizioso programma di modernizzazione che lo ha visto rifondare una Istanbul abbandonata dai kemalisti, creare una vasta rete infrastrutturale anche nell’Anatolia più profonda (suo bacino elettorale prediletto), e presiedere all’ingresso della Turchia nella Nato, nel 1952.
La contrapposizione tra il filo-americano sovvenzionato da Washington, Menderes, e i suoi oppositori kemalisti, rappresentati dall’erede di Atatürk alla Presidenza della Repubblica, il generale Ismet Inonü, è sempre stata molto marcata. Dalla politica estera a quella economica, passando per il ruolo dell’esercito e i privilegi concessi ai militari, Menderes inaugura un nuovo corso democratico-populista dove sono le masse anatoliche a essere le protagoniste della nuova Turchia, a dispetto di un establishment che non gli perdona l’allineamento con gli Usa e i cedimenti religiosi. Adnan Bey infatti ripristina la preghiera in arabo – ezan – nelle moschee turche e dà nuova vita a Said Nursi, un celebre predicatore islamico accantonato dai kemalisti.
Il contrasto tra la Turchia del fondatore e quella democratica non potrebbe essere più evidente all’apparenza: in realtà, l’autoritarismo che ha scandito la presa del potere da parte di Atatürk si ritrova anche nei democratici e in Menderes, dapprima sostenitore della stampa e delle libertà associativa e poi, successivamente, feroce censore di giornali e liberi pensatori, tanto da arrivare a imprigionare Hazim Hikmet, il celebre poeta comunista turco, dopo averlo riportato in patria per sottolineare la sua differenza con il regime precedente. Ma se da un lato il laicismo esasperato dei kemalisti soffocava le libertà e le manifestazioni religiose, dall’altro anche il consolidarsi del potere di Menderes aveva creato un regime dispotico, fondato sulle consorterie più vicine al premier e agli interessi elettorali dei democratici.
La grave crisi economica e la repressione delle manifestazioni dei giovani universitari – esaltati da sempre dai kemalisti come loro constituency di riferimento – portarono al golpe militare del 27 maggio 1960, guidato da Cemal Gürsel, il nuovo Pasha. Anche se Atatürk aveva previsto per la Turchia repubblicana un ruolo limitato dei militari al cospetto del progresso civile della nazione, l’esercito si decide ad agire dopo avere considerato l’operato di Menderes “incostituzionale” e “contrario ai valori repubblicani”. Il primo ministro e i suoi principali collaboratori vengono arrestati e confinati a Yassiada, “L’Isola dei Principi”, dove vengono sommariamente processati e poi impiccati.
Inizia così il ruolo attivo dell’esercito nelle vicende della Turchia moderna, che vedranno le Forze Armate scendere per strada con tanto di carri armati e fucili per rovesciare i governi democraticamente eletti dal popolo turco nel 1970, nel 1980, nel 1997, e, in ultimo, nel 2016 (con scarsa fortuna). In ogni occasione i vertici militari hanno giustificato la loro irruzione nella vita pubblica con la promessa di ripristinare la democrazia e la libertà, e in ogni occasione hanno disatteso questo impegno ricorrendo ad arresti, violenze, processi farsa e repressioni.
Nel libro, il Menderes di Seal appare un uomo comune, cordiale e amante del suo Paese, cui il potere dopo tanti anni ha fatto perdere di vista la realtà, che stava presentandogli un conto durissimo attraverso il golpe, la fine della sua carriera politica e la fine della sua vita. Nelle prime elezioni dopo la sua impiccagione i kemalisti furono sconfitti dal nuovo Partito della Giustizia, che si ispirava proprio all’operato di Adnan Bey. La storia dell’Islam politico turco prende avvio nella sua fase moderna proprio da quella drammatica esperienza. Non è un caso che dopo Menderes ci sono stati altri tentativi per riproporre dei partiti conservatori e tradizionalisti, come quello di Necmettin Erbakan, e che oggi l’attuale presidente turco consideri Menderes il suo mentore, riabilitando completamente la sua figura. Il sentiero che poterà la Turchia a una reale democrazia sembra ancora lungo e passa dallo strettissimo crinale tra la tutela dei valori della Repubblica e la tutela delle libertà individuali, tra cui, non ultima in un Paese dove il 90 per cento degli abitanti è musulmana, quella religiosa.