Atlantico valuta notoriamente con vivissima simpatia l’idea Brexit: chi scrive, insieme a Federico Punzi, e con il concorso di tanti analisti e personalità, ha da mesi pubblicato per le edizioni Giubilei Regnani “Brexit. La Sfida”. Allo stesso tempo, guardiamo con preoccupazione sia le reazioni livorose e vendicative dell’Unione europea, sia – ahinoi – qualche incertezza strategica del governo inglese, che rischia di costare cara. Se decidi di fare Brexit, devi essere conseguente e thatcheriano: puntare davvero a una Global Britain capace di competere in una gara mondiale di taglio di tasse, di disboscamento burocratico, di attrazione di risorse, investimenti, talenti. Se invece appari incerto nel negoziato, se non hai il coraggio di divergere in modo chiaro dagli standard fiscali e commerciali dell’Ue, se non prendi in considerazione l’ipotesi “no deal” (nessun accordo, come una pistola da mettere sul tavolo: magari per meglio negoziare un’intesa soddisfacente), il rischio è quello di rimanere prigionieri della “melina” bruxellese.
In questo spirito, va assolutamente raccomandata la lettura di un saggio (che esce domani, 9 giugno, in abbinamento con Italia Oggi e Milano Finanza) scritto da Bepi Pezzulli, avvocato e osservatore che da tempo considera con attenzione le scelte geostrategiche ed economiche del Regno Unito.
Il volume di Pezzulli, che si avvale della bella prefazione di Mark Wheatley, ha almeno tre meriti, a mio avviso.
Primo. Descrive le origini della vicenda Brexit, il retroterra, se vogliamo anche il cammino preparatorio. Ben al di là delle vicende del primo semestre del 2016 (il referendum “Leave contro Remain” è del 23 giugno di quell’anno), da tempo sia la politica inglese, ai tempi del governo Cameron-Osborne, sia gli hedge funds britannici avevano seminato in una direzione coerente con la dimensione “globale” e “imperiale” da sempre propria del Regno Unito. Una strategia di attenzione verso la Cina, in primo luogo, ma anche verso l’Arabia Saudita, oltre che – com’è naturale – verso gli Stati Uniti e le decine e decine di paesi del Commonwealth. Marcando una centralità britannica, e una capacità di Londra di muoversi, in primo luogo dal punto di vista finanziario e commerciale, ben al di là delle angustie e delle rigidità dell’Ue. Una “grande Singapore”, com’è stato detto: con una forza, una credibilità e una potenza politica, economica e anche militare incomparabile.
Il secondo merito è quello di accendere i riflettori su Milano, intesa come piazza finanziaria e anche (direi soprattutto) come battistrada dell’economia italiana. Per Milano si apre, spiega Pezzulli, una doppia opportunità: per un verso stringere ancora i legami con il Regno Unito, e per altro verso far tesoro nel recinto Ue degli spazi che fatalmente l’uscita di Londra renderà liberi, evitando che siano altri (gli olandesi, o il solito asse franco-tedesco) a occupare tutto.
Il terzo merito è quello di un’analisi lucida e realistica dello stato di salute dell’Unione europea. Anziché reagire in modo scomposto all’evento Brexit, anziché frapporre ostacoli incattiviti al negoziato con Londra, l’Ue – dice Pezzulli – farebbe bene ad interrogarsi autocriticamente sul passato, e non avere indulgenze sul presente e sul futuro. Nessuno può sapere se Brexit si rivelerà un successo: ma ormai è chiaro a chiunque abbia onestà intellettuale che l’Ue è un progetto ferito, forse fallito, a cui non porterà alcun giovamento sperare negli insuccessi altrui.