“Che diritto ho di essere tanto indifferente?”
È l’inverno del 1946, le strade di Amsterdam sono ventose e ghiacciate e nella vita di Frits van Egters non succede assolutamente niente.
Mentre il tempo scorre inesorabile il discusso scrittore olandese Gerard Reve ci conduce nel vuoto dell’umana realtà con “Le sere”, un romanzo dal retrogusto esistenzialista concepito dall’autore nel 1947 e pubblicato adesso in Italia da Iperborea, che scioccò e divise la critica dell’epoca fino a divenire un classico della letteratura nederlandese.
Il protagonista, Frits, ha ventitré anni, ha lasciato gli studi e le sue giornate scorrono tra una squallida occupazione impiegatizia, una monotona quotidianità casalinga condivisa con i genitori – un padre egoista e una madre che tende continuamente ad autogiustificarsi per prevenire eventuali critiche familiari – e le sere, poche ore in cui si reca annoiato a far visita ad amici o ad annoiarsi a qualche serata mondana.
La vita d’ufficio di Frits è poi talmente deprimente che il protagonista a stento ne fa menzione durante i racconti delle sue giornate narrandone qualche episodio insignificante quanto i suoi stessi colleghi dalla comica tristezza – oggi oseremmo dire – fantozziana.
Non accade nulla ne “Le sere”, eppure è impossibile staccarsi dalla vita di Frits van Egters, non si riesce ad uscire dalle sue stanze, dalle sue ore vuote.
È impressionante l’indifferenza del vivere di questo giovane uomo che non prova emozioni, spreca le sue giornate, osserva la vita che scorre, rolla sigarette, pensa.
Il vivere di Frits è infatti un lungo flusso di pensieri che egli stesso non riesce ad interrompere, non riuscendo a svuotare la mente dai dettagli che compongono la realtà e dei quali è acutissimo osservatore. La narrazione è un continuo divagare fra riflessioni e osservazioni, tratto caratteristico di quello stile che verrà appunto definito “revismo”, condito da una feroce ironia su personaggi e situazioni circostanti, sui loro difetti fisici, grotteschi (ad esempio è ossessionato dalla calvizie).
“La giornata è vacua e la sera è completamente vuota” dichiara Frits, i cui unici pensieri veramente vivi sono i ricordi d’infanzia e i mostruosi incubi notturni, mentre l’unica sensazione che avverte da quando è stata varcata la soglia dell’età adulta è un senso costante di oppressione e angoscia. Frits è un uomo cinico e impietoso che non ha motivi per agire e i cui rari tentativi si rivelano goffi, maldestri, dal sapore woodyalleniano, come quelli di approccio con il genere femminile: “Sei timorosa, vedo. Paura? Qualche leggero disturbo nevrotico?”.
Con la sua vita piatta e il suo umorismo cinico Frits van Egters entra nel cuore del lettore per non uscirne più. L’empatia che si prova è simile a quella che si avverte nei confronti del professor Stoner di John Williams, un personaggio non pervaso dalla stessa dose di nichilismo del primo ma accomunato allo stesso da una vita ordinaria straordinariamente raccontata dal suo autore. Come “Stoner”, “Le sere” si rivela un piccolo capolavoro da riscoprire in un’epoca diversa da quella in cui ha visto la luce ma nella quale la maggior parte della gente continua a non pensare mai a niente. E se nel 1947 la critica lo definiva “inumano” oggi la sua grandezza risiede nell’attualità che lo caratterizza. In una realtà priva di ideologie, riferimenti e valori di lungo periodo in cui tutto è dominato da tecnica ed economicismo e le masse si omogenizzano sempre di più, essere Frits van Egters è forse una salvezza. Il suo nichilismo dagli echi huysmansiani lo rende oggi un romanzo postmoderno.
Frits van Egters è un antieroe di cui è impossibile non adorare il modo dissacrante di demolire la vita piccolo-borghese di cui riconosce l’orrore fino al punto di divenirne camusianamente indifferente, una vita piatta che è l’esatto opposto di quella del suo autore – del quale pare un alter ego – all’epoca ventitreenne che si dibatteva fra accuse e scandali.
“Le sere” è una maestosa esaltazione del grottesco che è nelle vite di tutti, raccontata attraverso gli occhi di un personaggio che sembra uscito direttamente dal “Cappotto” di Gogol, un libro il cui sfogliare le pagine equivale ad avvertire l’incessante ticchettio dell’orologio, del tempo che fugge, trascinati da una narrazione asciutta ma superba, perché “non è difficile raccontare ciò che è malvagio o spregevole, ma ciò che è ridicolo”.