Le virtù del nazionalismo secondo Yoram Hazony: ma attenzione ai difetti e alle semplificazioni sul liberalismo

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Sta suscitando molte discussioni il notevole saggio del politologo e filosofo israeliano Yoram Hazony “Le virtù del nazionalismo”, edito in Italia da Guerini e Associati (Milano, 2019). L’autore, che è inoltre un noto biblista, è presidente dello Herzl Institute di Gerusalemme e chairman della Edmund Burke Foundation con sede a L’Aia nei Paesi Bassi.

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Occorre subito notare che il libro è per molti aspetti un tipico esempio di “pensiero politicamente scorretto” poiché contesta, con dovizia di argomentazioni, tesi che oggi vengono considerate auto-evidenti e, quindi, non criticabili. Hazony ritiene infatti che le opinioni correnti sul concetto di “nazionalismo” siano infondate e basate su un’errata lettura della storia.

Il nazionalismo che ha in mente è “un punto prospettico, imperniato su dei valori, che considera il mondo come governato al meglio quando le nazioni sono in grado di pianificare autonomamente il proprio sviluppo; di coltivare senza interferenza alcuna le proprie tradizioni; come pure di liberamente perseguire i propri interessi”.

Sul versante opposto si colloca, nell’analisi dell’autore, l’imperialismo inteso in un’accezione che non è certo quella resa popolare da Lenin. Hazony definisce invece imperialista ogni progetto che si propone di portare la pace e il benessere al mondo intero unendo il genere umano sotto un singolo regime politico. Si tratta, a suo avviso, di una rinnovata forma di utopia.

Ritiene inoltre che non sia possibile evitare la scelta tra queste due posizioni: “o si sostiene l’ideale di un governo o di un regime internazionale, che imponga il suo volere alle nazioni a esso asservite, oppure si crede che le nazioni debbano essere libere di procedere per il loro particolare cammino in assenza di un siffatto governo o regime internazionale”.

E qui, prescindendo dalle originali posizioni filosofiche di Hazony, si entra subito nell’attualità politica. L’autore pensa infatti che l’Unione europea costituisca un esempio paradigmatico di imperialismo inteso nell’accezione sopra delineata. Le calunnie rivolte a buona parte della società civile inglese dopo il successo del referendum sulla Brexit dimostrano a suo avviso che, per molti, l’unificazione europea non è affatto una tra le tante opzioni possibili, bensì l’unica opzione politica che una persona morale e civilizzata può far propria.

Ne consegue che tutti i fautori della Brexit, senza distinzione, vanno considerati dei selvaggi che si collocano al di fuori dei confini della morale e della civiltà, con la relativa esecrazione del voto popolare britannico da parte delle élite intellettuali ed accademiche. Di qui anche la richiesta di un secondo referendum che abrogasse il primo, colpevole secondo le suddette élite di essere andato contro una verità auto-evidente, vale a dire la necessità di unificare l’Europa spogliando le nazioni della loro sovranità.

Originale pure la lettura che l’autore fornisce dell’attuale liberalismo occidentale, ammesso che le sue varie forme si possano davvero ridurre a una soltanto. Anche i liberali, sostiene Hazony, non dissimilmente dai marxisti del secolo scorso, possiedono una grandiosa teoria su come sia possibile portare la pace e la prosperità – non solo economica – al mondo, abbattendo tutti i confini e fondendo l’intero genere umano sotto una sorta di dominio planetario.

Ma si tratta, per l’appunto, di un’utopia che si aggiunge alle tante altre che l’hanno preceduta (inclusa quella marxista). E il destino delle utopie, si sa, è quello di essere smentite dalla storia. Ne sono esempio evidente le tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia e il trionfo globale del liberalismo. Non vanno prese sul serio simili tesi, ma occorre pur tenere conto del grande successo che hanno avuto in molti circoli intellettuali.

Ancor più significativo – e ovviamente oggetto di possibili critiche – è il fatto che l’autore consideri quali rappresentanti supremi dell’imperialismo liberale i due più celebri esponenti della Scuola economica austriaca, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Dalle citazioni che ne fa, tuttavia, non gli si può dare del tutto torto. Non a caso Mises insiste sulla necessità di una “accettazione incondizionata e assoluta” del liberalismo, il che contraddice la caratterizzazione classica del liberalismo stesso come metodo sempre aperto alla critica e campo per eccellenza del metodo di “congetture e confutazioni” elaborato da Karl Popper.

È chiaro che per il politologo israeliano la nazione rappresenta un valido antidoto contro ogni pretesa di omologazione globale, nonché una garanzia di specificità che si oppone a tutti i progetti “imperiali” volti ad annullare identità, tradizioni e radici dei popoli. Più che a Kant e all’Illuminismo, occorre quindi rivolgersi a Edmund Burke e alla sua penetrante critica del giacobinismo.

In conclusione, siamo in presenza di un saggio molto originale e ricchissimo di spunti anche se a tratti contestabile. Da valutare con attenzione, per esempio, le critiche che Hazony rivolge a John Locke, da lui considerato l’antesignano del succitato imperialismo liberale. E, nell’esaltare le virtù del nazionalismo, l’autore tende forse a trascurarne i difetti. Il libro merita comunque di essere letto con grande attenzione, ed è facile prevedere che diventerà un classico del pensiero politico conservatore.

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