La libertà non è un concetto astratto, un enunciato vuoto, una figura retorica. Quando in campagna elettorale la presidente della Comunità di Madrid Isabel Díaz Ayuso (poi riconfermata a larghissima maggioranza) difendeva la sua politica di aperture controllate con l’esigenza dei cittadini di uscire, muoversi, incontrasi, bere “una birra”, i suoi detrattori la accusavano di banalizzare il significato profondo dell’idea di libertà. Non capivano però che è proprio la quotidianità il contesto spazio-temporale nel quale i grandi ideali prendono forma e si concretizzano, declinandosi come libertà privata dell’azione individuale, quella che Benjamin Constant contrapponeva alla sfera della partecipazione politica collettiva, la libertà dei moderni che superava e completava la libertà degli antichi.
In fondo è proprio di questo che tratta l’ottimo saggio di Alessandro Ricci, ricercatore di geografia politica presso l’Università di Bergamo, dal titolo “Spazi di eccezione. Riflessioni geografiche su virus e libertà” (Edizioni Castelvecchi, 2021): degli spazi – prima di tutto fisici ma di conseguenza anche psicologici – persi a causa della pandemia o, meglio, della gestione della pandemia da parte del potere pubblico. Ma, soprattutto, della necessità di riconquistarli per riaffermare la condizione esistenziale senza la quale la vita umana si richiude su se stessa, svuotandosi: la libertà di muoversi, di agire, di abitare la realtà, in una parola di esistere nel suo significato etimologico originario (stare fuori).
Gli spazi di eccezione sono i luoghi della normalità trasformati in territori di un’emergenza che, da provvisoria, si è andata progressivamente istituzionalizzando fino a presentare i caratteri inquietanti della fissità: la casa che diventa ufficio, le stanze che si convertono in aule scolastiche, le strade sottratte al traffico che si fanno teatro di desolazione per le proteste delle categorie colpite dal lockdown, la dimensione privata che scompare di fronte all’invadenza del pubblico e del collettivo. Ricci ha certamente un vantaggio che gli deriva dalla sua formazione di geografo, quello di poter raffigurare la progressiva riduzione degli spazi che altri possono soltanto percepire come incombente.
Non solo il ripristino delle frontiere e dei divieti di transito su scala internazionale (il virus che “interrompe la globalizzazione” più di qualsiasi altra crisi precedente) ma, in un inquietante processo a ritroso, le barriere fra regioni, fra comuni, perfino fra quartieri, le zone off-limits, gli ostacoli fisici e i controlli sul cittadino, le denunce e le delazioni. Una serie di “limiti immaginari”, fino a pochi mesi prima inimmaginabili, imposti da una normativa dell’emergenza di dubbia costituzionalità, accettata tuttavia come inevitabile e in molti casi perfino auspicabile dall’opinione pubblica, in nome della lotta al virus. Limiti che hanno attraversato i muri delle nostre case, rendendole spesso i non luoghi di una sicurezza fittizia, dell’illusione di aver ingannato la malattia e la morte rinchiudendoci nel guscio protettivo di un’abitazione, perché così ci è stato chiesto dall’autorità a cambio di protezione. Per finire come il topo di Kafka che, nascosto nella sua tana per esorcizzare il pericolo di vivere, cade comunque nelle grinfie del gatto che lo aspetta fuori.
Nel nostro caso il gatto presenta sembianze ambigue: da una parte quelle dell’infezione, del morbo, della peste invisibile la cui unica finalità è contagiare quanti più esseri viventi possibile per riprodursi; dall’altra quelle dello Stato che si autoproclama baluardo ultimo e definitivo contro la minaccia virale. E lo fa – sottolinea l’autore – attraverso gli spazi di eccezione, che incarnano “la volontà dello Stato di imporre la sua presenza, tentando così di sopperire all’insicurezza e all’incertezza”. La “città appestata”, ricorda Ricci citando Foucault, “è l’utopia della città perfettamente governata”.
Il risultato però è controproducente perché l’azione scomposta e incerta del potere pubblico aumenta in realtà gli spazi di precarietà a livello individuale e collettivo che, in teoria, si propone di colmare. Incapace di rispondere davvero all’emergenza sanitaria in quanto tale, e quindi rivelandosi impotente nella missione autoassegnatasi di fermare il virus, lo Stato decide allora di bloccare la vita dei cittadini e di cancellare i loro margini di autonomia. È la dichiarazione di impotenza di una classe dirigente che abdica alla propria funzione decisionale, sostituendo la visione politica con la pretesa illusoria di governare l’emergenza. Da qui la delega di decisioni inerenti ai diritti e alle libertà dei singoli a veri e propri comitati di salute pubblica (la definizione è mia), che aggirano il principio di rappresentanza e di responsabilità: tecnici, funzionari pubblici e privati diventano padroni delle nostre esistenze con il beneplacito della politica. È un doppio abuso, lo Stato entra nella vita delle persone e lo fa senza risponderne, perché ha demandato le proprie competenze ad altri.
“Chi ha deciso, negli ultimi mesi?”, si chiede ad un certo punto Ricci. Alla crisi sanitaria si accompagna quindi quella delle istituzioni: ma invece di fare un passo indietro, il potere pubblico ne approfitta per aumentare la sua invadenza degli spazi privati “in un superamento dei confini che, a memoria, è difficilmente riscontrabile nella storia delle democrazie liberali”. Qui, a mio parere, l’autore pecca per difetto. Non sono in grado di ricordare nessun sistema dittatoriale nella storia europea che, a livello di libertà personale (non parlo di diritti politici), abbia imposto in tempo di pace limitazioni paragonabili a quelle che abbiamo sofferto nell’ultimo anno in alcuni Paesi occidentali (non tutti): perfino dietro al Muro di Berlino si poteva portare a passeggiare il cane dopo cena, magari spiati dal vicino della Stasi.
Certo, si dirà, c’era (c’è, ci sarà) un virus, tutto questo era (è, sarà) necessario. Ma è proprio vero? Purtroppo sembra di no, se diamo retta agli studi più recenti, citati nel libro, che hanno dimostrato l’assenza di correlazione fra un regime di lockdown stretto e la prevenzione dei contagi. Anzi, in molti casi, l’esito è stato esattamente opposto a quanto ci si prefiggeva con la chiusura delle attività professionali, commerciali e sociali: gli Stati con più divieti hanno presentato le peggiori cifre di malati e di morti (Italia e Spagna su tutti).
L’interrogativo più inquietante che Ricci lascia in sospeso riguarda la lezione che abbiamo tratto da questo dramma: cosa abbiamo imparato da tutto ciò, se abbiamo imparato qualcosa? I segnali non sono confortanti, se la libertà individuale è stata così facilmente sacrificata in nome di un’emergenza sociale dai contorni ancora indefiniti, sia nell’origine che nelle reali dimensioni, e se la tentazione autoritaria, fatta di controllo pubblico e deresponsabilizzazione individuale, è tornata ad affiorare questa volta senza infingimenti. Riusciremo a ristabilire le priorità dell’esistere? Le libertà dei moderni, uscire, commerciare, viaggiare, riappropriarci dei nostri spazi privati, andare a lavorare, tornare a casa senza il Grande Fratello in agguato, comunicare senza l’intermediazione di uno schermo, in una parola vivere davvero, e non semplicemente restare in vita.