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Il caso Richard Millet e l’antirazzismo “terroristico”

Da principio morale a ideologia militante: bollato come razzista chiunque rifiuti di sottomettersi all’odio per la civiltà occidentale elevato a religione politica

antirazzismo libro © clu e Africa images tramite Canva.com

Richard Millet è uno dei maggiori scrittori contemporanei, saggista premiato dall’Académie française e scopritore di talenti letterari per la prestigiosa casa editrice Gallimard. Alcuni vincitori del Premio Goncourt, il più blasonato di Francia, sono sue rivelazioni. Letterato raffinato, melomane appassionato, ma anche polemista e critico culturale, la sua opera, vasta e solenne, è stata adombrata dalle infinite dispute suscitate dai suoi incendiari pamphlet politico-letterari.

Millet è anche un uomo d’azione. Infatti, all’inizio della guerra in Libano nel 1975, combatté volontario con le falangi libanesi cristiane contro le forze “islamo-progressiste”, ossia i “palestinesi marxisti” che tenevano sotto controllo il Paese. Un’esperienza che sarà al centro del racconto La confession négative.

Nel 2012 dà alle stampe “Langue fantôme”, contenente il celebre Elogio letterario di Anders Breivik, che scatena un dibattito furibondo fatto di appelli, accuse e insulti. Una vera e propria “fatwa letteraria”, come l’ha definita lo scrittore Bruno de Cessole, è lanciata contro Richard Millet, che sarà licenziato da Gallimard.

In Italia, solo due case editrici hanno avuto il coraggio e l’impertinenza, la chutzpah si direbbe in ebraico, di pubblicare e, persino, di ripubblicare dei testi dello scrittore francese: la Transeuropa e la Liberilibri di Aldo Canovari, l’editore lucido e brillante scomparso lo scorso anno.

Il “terrore” dell’antirazzismo

Alcuni mesi fa, la Liberilibri ha editato la seconda edizione di uno dei pamphlet più importanti di Millet, ovvero “L’antirazzismo come terrore letterario”, con una nuova e articolata prefazione del suo curatore, il professore Renato Cristin, docente di Ermeneutica filosofica presso l’Università di Trieste.

Il breve testo ricusa la trasformazione dell’antirazzismo da principio morale a ideologia militante, che lancia anatemi e presenta denunce ogniqualvolta un intellettuale decide di affrontare temi come la nazione o l’identità senza sottostare ai dettami del “partito devoto”. Scrive Millet: “l’accusa di razzismo è oggi la pallottola destinata alla nuca di chi ha a cuore la verità”.

L’antirazzismo “terroristico” denunciato dallo scrittore francese deriva dalla definizione di “razzismo” elaborata dagli attivisti rivoluzionari afroamericani alla fine degli anni Sessanta, generalmente conosciuta come “razzismo strutturale” o “sistemico”. Si tratta di un’arma simbolica che consiste nel ridurre il razzismo al “razzismo bianco” che si suppone sia intrinseco alla “società bianca” e alla “cultura bianca”, essendo queste le uniche espressioni di dominio razziale riconosciute e contestate.

Questo neo-antirazzismo, dunque, si declina come mera avversione ai “bianchi”, alla civiltà occidentale, intersecandosi qui con il fenomeno della “cancel culture”, e al sionismo. Gli ebrei israeliani, infatti, sono percepiti come “bianchi” che “occupano” le terre d’indigeni “neri”. Scrive Renato Cristin nella sua introduzione:

Per molti progressisti occidentali, l’odio verso gli israeliani non sarebbe razzismo né sarebbe infondato, ma deriverebbe da una sequela di soprusi che i popoli arabi – e più in generale i Paesi sottoposti al colonialismo – avrebbero subìto.

Epurazione culturale

Millet non può che avere orrore di coloro che hanno succhiato il latte di tale antirazzismo fin dalla culla, individui che a forza d’incarnare l’idea di tolleranza sono diventati intolleranti e indagatori. In loro vede una delle figure del demoniaco, di quel “Satana” che è all’opera nel mondo sotto la maschera della virtù “democratica”.

L’antirazzismo si rivela come “terrore letterario” dal momento che la letteratura diviene il “campo di una epurazione radicale (onomastica, religiosa, artistica, sessuale e, ma certo, razziale)”. Millet, al contrario, ha denunciato quello che lui stesso, nella sua “Lettre aux Norvégiens sur la littérature et les victimes”, definisce come il “nesso fra l’immigrazione di massa e le diverse forme di decadenza europea, soprattutto in materia di cultura, e in particolare di letteratura”, attirandosi così il furore delle erinni del “Bene” trasformato in programma politico, Annie Ernaux in testa.

L’unico ruolo che i pretoriani dell’indistinto umanitario accordano alla letteratura è quello di propagandare “il discorso dominante di un’epoca in cui la gnosi antirazzista tenta di persuaderci che le razze non esistono, e meno di tutte la razza bianca, colpevole, esclusivamente, di tutti i mali, e promessa a scomparire – punizione e redenzione – nella blanda colorazione del meticciato universale”.

Lo scrittore che, come Millet, rifiuta di genuflettersi alla suddetta propaganda, ostinandosi, da uomo fedele alla Parola, “a chiamare un gatto un gatto e l’antirazzista un mentitore”, è destinato a divenire un reprobo, un “razzista”, dunque un individuo a cui non è possibile accordare alcuna indulgenza.

La letteratura sta morendo

La letteratura, ossia ciò che ci permette di “dare nomi a noi stessi e alle cose”, come scrive Millet nel suo “Elogio letterario di Anders Breivik”, è ciò che i paladini del Nuovo Ordine Morale vorrebbero sradicare, riducendola a “romanzo postletterario“, perfetto per un mondo post-nazionale: “la letteratura sta morendo nel romanzo e il romanzo sta morendo sotto la penna di chi lo prostituisce alla pornografia democratica”.

Lo scrittore, affermando il suo essere “francese di ceppo e di razza bianca, eterosessuale, cattolico, colmo di cura per l’altrui così come per il mio, e quindi particolarmente preoccupato di ciò che ho ricevuto in eredità”, ossia rifiutando d’idealizzare l’Altro extraoccidentale, sfida il nuovo “totalitarismo angelico”.

In nome del “Bene” neo-antirazzista, lo scrittore, l’uomo, Richard Millet è stato diffamato e infangato. Un destino che, seppur in modi diversi, può cogliere chiunque rifiuti di sottomettersi all’odio per la civiltà occidentale elevato a religione politica. Essere fedeli a sé stessi e alla propria storia, oggi, significa pagare un prezzo alto.