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“Il lungo inverno”: Rampini smonta gli eco-allarmismi

L’autore mette in guardia dalla cattiva informazione degli ambientalisti, dalla dipendenza dalla Cina, e invita a discernere tra crisi vere e create a tavolino

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Dopo il successo di “Fermare Pechino”, Federico Rampini torna in libreria con il suo ultimo lavoro, “Il lungo inverno. False apocalissi, vere crisi ma non ci salverà lo Stato”. Attraverso un’analisi minuziosa, l’autore cerca di narrare, con l’aiuto di parallelismi storici, le crisi attuali e prossime venture.

Lo shock petrolifero degli anni ’70

Trattando dell’attuale crisi energetica, l’autore ricorda lo shock petrolifero della metà degli anni ’70. Allora la situazione italiana presentava delle evidenti analogie con quella di oggi.

A causare politiche di austerità energetica fu anche allora una dipendenza dai Paesi stranieri – come oggi la dipendenza dal gas russo – ma nel 1973 fu l’Opec a decidere l’aumento dei prezzi e un embargo del petrolio nei confronti di alcuni Paesi, per punire l’Occidente per il suo sostegno a Israele.

Naturalmente il tutto si riverberò sulle abitudini e il potere si spesa degli italiani. Molte attività venivano chiuse in anticipo, i riscaldamenti abbassati e, venne istituita la cosiddetta “domenica a piedi”, rimasta il simbolo di quel periodo.

Nonostante il breve periodo di ristrettezze, il Paese riuscì comunque a sollevarsi, scrollandosi di dosso quel sentimento catastrofista che da sempre permea l’Italia.

La deriva statalista

La tentazione statalista, tuttavia, si fece largo nel Paese. Infatti, sotto la spinta della classe operaia e di un precario equilibrio socio-economico, vennero richieste diverse misure assistenzialiste, molto simili al reddito di cittadinanza. Oggi, come allora, le imprese venivano costantemente demonizzate.

La propaganda anti-crescita, alimentata dai partiti socialisti e comunisti, condizionarono – come condizionano tutt’ora – l’opinione pubblica italiana. La triste fama di Paese “anti-impresa” non è dunque qualcosa di recente, ma risale a quasi mezzo secolo fa, al periodo di massimo splendore del PCI.

Ritorno al nucleare

Interessante anche il modo in cui i governi stanno reagendo alla crisi attuale, che sta mettendo in discussione le politiche energetiche adottate in questi anni.

Il Giappone, ad esempio, ancorché protagonista dell’incidente nucleare di Fukushima del 2011, sta tornando al nucleare. L’opinione pubblica giapponese – al 70 per cento circa – ha compreso l’importanza di questa fonte di energia.

E il premier Kishida sta optando per la riapertura dei reattori inattivi (circa 33), e la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione. I dubbi in merito a questo tipo di vettore energetico sono stati dunque superati.

In Germania, invece, la discussione sul nucleare spacca la maggioranza formata da SPD, Verdi e FDP. Il ministro dell’economia, Robert Haleck, si dice infatti contrario per il costo elevato.

Sotto l’aspetto della sicurezza, invece, il nucleare è – a tutti gli effetti – una delle fonti di energia più sicure in circolazione. Il numero di morti ad esso ascrivibili sono pari a quelli del fotovoltaico o dell’eolico, considerati anch’essi inquinanti, giacché prodotti in modo non del tutto “pulito” come si pensa.

Anche le rinnovabili inquinanti

“Non esistono fonti energetiche totalmente pulite”, precisa Rampini. Il fotovoltaico, ad esempio, è costituito in gran parte da silicio, il quale necessita di un’estrazione intensiva nelle miniere. Mentre l’eolico ha bisogno di lunghi trasporti delle pale, generalmente su camion a gasolio, e pertanto “inquinanti”.

Rampini, dunque, sconfessa l’ideologia ambientalista, colpevole a suo avviso anche di fare cattiva informazione e di influenzare negativamente l’opinione pubblica.

Dipendenza dalla Cina

Tagliente anche la critica all’Unione europea che, dopo gli accordi di Parigi, ha scelto di dismettere i motori endotermici entro il 2035. Una scelta – puntualizza l’autore – che ci porterà tra le braccia della Cina, unica – o quasi – detentrice delle materie prime necessarie alla costruzione delle batterie (Nichel e Litio su tutte).

Il rischio, pertanto, mentre faticosamente ci stiamo liberando dalla dipendenza del gas russo, è di dipendere di nuovo da uno Stato rivale quale la Cina. Xi Jinping non ha mai nascosto di voler diventare il dominus delle auto elettriche. E l’Eurozona, anziché contrastare le mire di egemoniche di Pechino, le sta assecondando.

I “no” degli ambientalisti

Ed il fatto che le politiche green abbiano ricevuto il placet dell’opinione pubblica è dovuto anche al fenomeno NIMBY (not in my backyard), di cui sono responsabili anche gli ambientalisti che si oppongono a qualsiasi opera, e che è una delle cause del mancato sviluppo del nostro Paese. Si pensi alle proteste anti TAP (fortunatamente portato a termine) o ai movimenti No-Tav.

Presentano le rinnovabili alla stregua di una panacea di tutti i mali, salvo scontrarsi con la dura realtà dei fatti. L’esempio del TAP è probabilmente il più emblematico. Se il Paese non avesse concluso quest’opera, grazie alla quale prende dall’Azerbaijan circa il 10 per cento dell’approvvigionamento di gas, la situazione attuale sarebbe ben più grave.

L’idrogeno

Sempre nel merito delle rinnovabili, Rampini non si limita ad una pars destruens, ma ci propone sostanzialmente due soluzioni per avviare una sana transizione energetica. La prima è quella di guardare all’idrogeno, decisamente più pulito rispetto all’eolico ed al fotovoltaico.

Questo vettore energetico ha raggiunto, tra il 2019 ed il 2021, i suoi picchi di crescita sul mercato. Inoltre, diversamente dall’elettrico, un’auto a idrogeno non necessita di grandi quantità di tempo per la ricarica. Un pieno di idrogeno è infatti possibile in pochi minuti. Il problema tuttavia al momento è il suo costo elevato.

La seconda soluzione, invece, sta nel “carbon sequestration” o seppellimento di masse di Co2, inteso come stoccaggio di anidride carbonica sotto il pavimento oceanico.

La teoria della scarsità di risorse

Nel capitolo “Alimenti e clima, la guerra del grano”, l’autore confuta diverse teorie balzate alla cronaca negli ultimi anni, in particolare quella secondo cui vi sarebbe una scarsità di materie prime nel mondo. In maniera empirica, supportato da dati reali, Rampini smentisce seccamente questa ipotesi, attribuendola ad una mera strategia economica.

Infatti, gli annunci circa una possibile scarsità di risorse è sovente funzionale alle fiammate dei prezzi. Sostenere che un bene è presente in quantità esigua vuol dire perciò stesso farlo aumentare di prezzo.

Tale teoria, beninteso, non è cosa nuova. È riconducibile all’economista Malthus, il quale, all’inizio dell’800, sosteneva che la crescita demografica andasse di pari passo con la scarsità di materie prime, e che queste non fossero sufficienti a sfamare l’intera popolazione.

Ipotesi assai lontana dalla realtà. La produzione di grano, di cui la Russia è la prima esportatrice, non solo non ha dato segni di scarsità, ma è aumentata. Secondo i dati Fao, a causa del surplus di produzione, sono state destinate, solo nel 2019, ben 450 tonnellate di cereali agli allevamenti, circa il 45 per cento del fabbisogno cinese.

Crisi vere e a tavolino

In definitiva, il testo non è un elogio dell’austerity tipica dei periodi di crisi, ma l’autore invita ad affrontare le crisi – presenti o prossime venture – senza troppo lamentarsi o deprimersi, accettando gli avvenimenti quale naturale susseguirsi della storia, con momenti di crescita e di decrescita.

Con atteggiamento stoico, quale quello dei nostri antenati, che dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale riuscirono a risollevare l’Italia con il boom degli anni ’60, e sapendo discernere tra le crisi vere da quelle create a tavolino, soventi funzionali agli interessi dell’alta finanza.