Oggi più che mai, vivendo in un mondo che sembra non avere più alcun punto di riferimento, sorge il dubbio che si viva, come dire… un po’ a casaccio, trasportati dalle (tiepide) emozioni del momento che ci spingano ora in quella, ora in quell’altra direzione. Come antidoto a tanta approssimativa nonchalance esistenziale potrebbe servire la lettura di alcuni capolavori del passato, frutto di un pensiero forte che parrebbe essere stato dimenticato, come qualcosa d’inutile della quale non si sappia più che fare.
Esattamente nello stesso giorno in cui scrivo questo pezzo, 113 anni fa, moriva a Vicenza un grandissimo della letteratura italiana, Antonio Fogazzaro. Tratteggiare un ritratto minuzioso e rassomigliante di una personalità tanto complessa, contraddittoria e fortemente spirituale dell’autore di Piccolo Mondo Antico e Malombra è difficile.
Basti pensare che vi si dedicarono menti eccelse quali Francesco de Sanctis, Natalino Sapegno e Benedetto Croce, ma certamente vale la pena di annotare qualche pensiero in libertà che anche il più distratto lettore del Terzo Millennio possa lasciar scaturire dalla sua vasta opera. Per non compiere il misfatto di lesa maestà nei confronti di sì illustri chiosatori e critici letterari, mi limiterò a qualche suggestione, lasciando al lettore il piacere di un’eventuale riscoperta di Fogazzaro, magari in quello che ritengo il suo capolavoro: Piccolo Mondo Antico.
Piccolo Mondo Antico
Già dall’incipit del romanzo ambientato sulle rive del lago di Lugano nel 1828, tra la Prima e la Seconda Guerra d’Indipendenza, si può subito gustare lo stile di Fogazzaro:
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all’opposta sponda austera del Dòi, un lingueggiar di spume bianche.
Orbene, non ditemi che leggendo soltanto questi due periodi non avete immaginato perfettamente l’ambiente, i profumi, i rumori di fondo di questa storia. Ed ancora:
“Si accomodi, signor Viscontini”, rispose la marchesa, che sapeva praticare l’arte insolente della sordità come tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio comodo e il proprio gusto.
Leggete ancora qui: è semplicemente stupenda la descrizione dell’animo dei pescatori a canna sulle acque tranquille del lago, in cui l’autore affida all’insignificante sughero del galleggiante un ruolo intimo e strettamente legato alle aspirazioni dell’animo umano:
In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche e nessun mistero dell’avvenire umano aveva per essi maggior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva il piccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito, dava segni d’inquietudine sempre più viva e in fine di alienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti ora avanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusione delle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofitto nell’abisso. Questi fenomeni avvenivano però di rado e parecchi contemplatori solevano passare delle mezze giornate senza notar la menoma inquietudine nel sughero. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccolo galleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d’idee parallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buon arciprete di pescar mentalmente una sede episcopale; al Signoron di pescare un bosco ch’era stato dei suoi avi, al cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda della montagna, al Cüstant di pescare una commissione del Governo per dare il bianco al picco di Cressogno.
L’autore
Questo romanzo, che ingiustamente non è oggi tra i più letti della letteratura italiana di fine Ottocento, è la summa dell’animo tormentato del suo autore, avvocato controvoglia per decisione paterna, sostenitore delle teorie del modernismo teologico che, nonostante il suo fervente spirito cristiano gli procurarono non pochi dissidi e qualche danno alla sua reputazione presso il Vaticano, e persino senatore del Regno.
Lottò sempre per le proprie idee con franchezza ed assumendosene le conseguenze. Non tutti sanno, poi, che Antonio Fogazzaro scrisse la celeberrima Preghiera del Marinaio, quella che chiunque abbia prestato servizio militare in Marina ricorda a memoria :
A Te, o grande eterno Iddio, Signore del cielo e dell’abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi, uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia, da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione…
Personaggio controverso, quanto aperto all’innovazione a tutto tondo, Fogazzaro seppe affrontare temi di alta spiritualità con una narrazione snella e piacevole, facendo spesso ricorso al dialetto lombardo e con una terminologia insolitamente popolare per quei tempi, non di rado inserendo saggiamente qua e là nei suoi romanzi delle vere scenette comiche, frutto d’una mente eclettica e di un gusto inaspettatamente moderno.
Raffinato nella vita personale senza essere snob, ebbe occhi e penna per gli anfratti più intimi del cuore dei poveri e degli animi più travagliati del suo tempo, ma sempre affidando il destino dei suoi personaggi letterari alla Provvidenza, nella quale confidò incrollabilmente.
Potenza narrativa
Sarebbe bello se i giovani, magari mettendo provvisoriamente un segnalibro ai libri che stanno non ricordo quanti metri sopra il cielo (tanto li hanno già comprati) o quelli del genere fantasy, riscoprissero la drammatica potenza narrativa di brani come questo, dalla seconda parte di Piccolo Mondo Antico:
Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l’aria pura, fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dalla luce. S’inginocchiò ad una finestra, s’incrociò le braccia sul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito.
Ma dopo lo strazio di Franco Maironi per la morte della sua piccola Ombretta, mi piace lasciarvi con un perla del grande scrittore vicentino, in cui tratteggia con maestria assoluta la contrapposizione tra la malvagità untuosa del Pasotti e la sua sottomessa e soave moglie, ormai vecchia e sorda: la signora Barborin:
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti. La povera signora Barborin, avendo visto il domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure.
Un Piccolo Mondo Antico, appunto. Che non ritornerà.