Nei giorni in cui gli esponenti più in vista della magistratura associata italiana si stracciano pubblicamente le vesti per respingere l’accusa che il premier Giorgia Meloni ha rivolto ad una parte dell’ordine giudiziario di volere interferire indebitamente nell’azione politica di governo e Parlamento, non c’è nient’altro di meglio da fare che leggere il libro di Ermes Antonucci, “La repubblica giudiziaria”.
Il volume è in libreria da alcune settimane e merita la massima considerazione da parte di ogni cittadino che voglia davvero comprendere cosa sia stata la magistratura militante in Italia dalla fondazione della Repubblica in poi.
Si tratta, infatti, di un libro di storia, un’opera che, lasciando parlare esclusivamente le fonti e i documenti, testimonia delle incredibili degenerazioni della funzione giudiziaria di cui è stata responsabile la parte politicamente più impegnata e ideologicamente più orientata della magistratura italiana.
La narrazione della sequenza delle posizioni discutibili addebitabili a certi settori dell’ordine giudiziario è cosi serrata e la chiarezza delle fonti archivistiche appare così lampante che alla fine della lettura non può che riecheggiare una sola domanda: come è stato possibile?
Immunità quasi totale
Come è stato possibile, ad esempio, che le garanzie fissate dai costituenti a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario siano diventate il grimaldello per la rivendicazione, da parte dei settori più attivi della magistratura, della superiorità funzionale e istituzionale dei giudici rispetto a qualsiasi altro potere dello Stato?
Antonucci ripercorre la lunga corsa al galoppo della magistratura italiana verso l’abolizione del merito nella selezione per l’assegnazione delle funzioni superiori, gli avanzamenti di retribuzione a pioggia riconosciuti per mera anzianità di servizio, l’abrogazione di qualsiasi gerarchia fondata sull’esperienza e le capacità individuali, l’immunità pressoché assoluta rispetto a qualsiasi condotta rilevante sotto il profilo disciplinare o nei confronti di pregiudizi arrecati ai cittadini a causa della cattiva amministrazione della giustizia, l’assegnazione degli incarichi direttivi e semi direttivi in virtù di criteri più che discutibili.
Il ruolo politico delle correnti
Le pagine del libro nelle quali si ripercorrono l’espansione del ruolo delle correnti e gli orientamenti politici di alcuni settori della magistratura negli anni ’60 e ’70 lasciano attoniti anche il lettore più smaliziato.
Ogni corrente della magistratura ha coagulato in quegli anni adesioni e sostenitori sulla base di “visioni politiche del mondo” alternative che i giudici dovevano perseguire anche grazie alla funzione giudiziaria. I settori politicamente più attivi dell’ordine giudiziario hanno rifiutato l’idea che la loro funzione fosse quella di rimanere rigorosamente al di sotto della legge e hanno perorato, invece, un ruolo chiave nelle dinamiche sociali per influenzarle anche a costo di distorcere costantemente la lettera e la ratio delle norme.
Magistratura Democratica
Il sostegno palese di alcuni settori della magistratura italiana ai partiti politici di sinistra è documentato nel libro con un’onestà storica che non lascia spazio ad alcuna possibile contestazione.
Agghiaccianti risultano le pagine in cui Antonucci ricostruisce, documenti alla mano, le posizioni di alcuni esponenti di Magistratura Democratica per i quali l’ordine giudiziario avrebbe dovuto avere una funzione specifica nella lotta di classe fra il capitale e il proletariato.
Prendendo le mosse dalla tesi della interpretazione adeguatrice delle norme giuridiche, il cui obiettivo sarebbe quello di andare oltre la lettera e lo spirito della legge per conformarle alle “obiettive” esigenze sociali, alcuni settori della magistratura sono giunti a teorizzare l’interpretazione “alternativa” finalizzata al sovvertimento dell’ordine borghese.
L’interferenza del Csm
Non meno clamorose appaiono, ancora oggi, le posizioni assunte dal Csm nel corso dei decenni, fra le quali merita di essere ricordata la pretesa di influenzare costantemente il processo legislativo per finalità di politica giudiziaria e per definire un indirizzo politico generale di cui sarebbero titolari, invece, per Costituzione, esclusivamente governo e Parlamento.
L’autore del libro ricostruisce con scrupolo i continui contrasti fra politica e organo di autogoverno della magistratura che hanno avuto ad oggetto il tentativo costante del secondo di invadere il campo riservato dalla Carta fondamentale alla prima.
Tangentopoli
Non poteva mancare il capitolo dedicato a Tangentopoli, all’interno del quale Antonucci richiama i documenti che testimoniano persino della consapevolezza, dichiarata a posteriori, dei magistrati del pool di Mani Pulite di avere fatto un uso non proprio consono della custodia cautelare a danno di centinaia di indagati e di avere ricercato senza infingimenti il consenso popolare per portare a temine quella che già allora i protagonisti avvertivano essere un’opera palingenetica di pulizia politica e morale dell’intero Paese.
Una rivoluzione culturale e morale di fronte alla quale l’autonomia della politica, la complessità delle vicende storiche italiane, il principio giuridico della separazione dei poteri e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo sono apparsi ad alcuni settori della magistratura ben poca cosa.
Un nemico da abbattere
La guerra aperta, infine, nei confronti di Silvio Berlusconi e del berlusconismo è storia tutto sommato recente; una storia che racconta come il leader di Forza Italia sia stato considerato espressamente un nemico politico da abbattere, ancora una volta, per finalità di palingenesi culturale e morale.
Nessuna generalizzazione
Nel corso della sua narrazione Antonucci non consente mai al lettore di dimenticare l’enorme tributo di sangue che i magistrati italiani hanno pagato alla lotta al terrorismo e al contrasto alla mafia e la sua non è mai una rappresentazione di fenomeni e tendenze che indulge alla generalizzazione o che mette da parte il lavoro coscienzioso di centinaia di appartenenti all’ordine giudiziario.
Nel libro l’autore fa nomi e cognomi di coloro che hanno assunto precise posizioni politiche e ideologiche all’interno della magistratura e non spara mai nel mucchio. Allo stesso modo Antonucci rende l’onore delle armi ai quei pochissimi politici che hanno avuto il coraggio di opporsi ad una degenerazione durata decenni e che hanno manifestato la sensibilità istituzionale di dovere avvertire delle conseguenze nefaste dell’operato dei settori più militanti della magistratura. Bettino Craxi e Francesco Cossiga su tutti.
Il libro di Antonucci, per concludere, rappresenta con dovizia di particolari cosa sia stata davvero la Repubblica giudiziaria e attraverso la narrazione del protagonismo politico, culturale e ideologico di alcuni settori della Magistratura italiana il lettore percepisce nitidamente ciò che nel racconto non c’è, almeno espressamente, ma che si affaccia ad ogni pagina: la debolezza, l’ignavia e forse persino la viltà di generazioni di rappresentanti delle più alte istituzioni politiche italiane che hanno permesso tutto questo.