“Maledetta Sarajevo”: ritorno sui luoghi del crimine balcanico a trent’anni dalla mattanza

La lezione per l’oggi. La storia può ripetersi nei Balcani, basta innescare la miccia. Similitudini con l’Ucraina

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Figli di un’Europa minore. Potrebbero definirsi così gli Stati balcanici scaturiti dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia trent’anni dopo l’inizio delle guerre intestine del primo decennio post-comunista. La cronaca dettagliata di quel massacro alle porte del nostro Paese la dobbiamo all’ancora ineguagliato lavoro di Jože Pirjevec del 2001. Maledetta Sarajevo (2022) di Francesco Battistini e Marzio Mian, più che una continuazione di quel saggio, ne è il necessario completamento.

Un ritorno sui luoghi del delitto, con speciale attenzione alla Bosnia-Erzegovina, il cui martirio divenne il simbolo della pulizia etnica teorizzata dal poeta maledetto Radovan Karadžić ed eseguita agli ordini del macellaio di Srebrenica, Ratko Mladić. Il tutto promosso, diretto e approvato da Belgrado, dove Slobodan Milošević cercava di portare a compimento il suo progetto genocida di Grande Serbia.

Vittime e carnefici

Gli autori, che all’epoca raccontarono la guerra dall’interno, non tacciono sulle responsabilità degli altri attori principali di quella serie di conflitti, sugli accordi segreti tra il croato Tudjman e il serbo Milošević per spartirsi la Bosnia, sul nazionalismo islamico e opportunista del bosniaco Izetbegović, sulla pavidità e le complicità delle Nazioni Unite, sui ritardi dell’intervento occidentale. Ma, allo stesso tempo, non si sottraggono al dovere di ricordare che quella non fu una guerra civile di tutti contro tutti, secondo l’interpretazione superficiale e condiscendente con gli aggressori che da più parti si cercò di far passare. Se nelle dirigenze politiche coinvolte nel massacro balcanico non c’erano innocenti, di sicuro nell’ex Jugoslavia ci furono vittime e carnefici: Sarajevo, Srebrenica, Omarska da una parte, Pale e Belgrado dall’altra.

Ce n’è anche per gli Stati Uniti e l’Europa, però. Da una parte le relazioni ambigue di Washington con il regime serbo (nella sua duplice incarnazione) fino a quando le immagini degli orrori in mondovisione resero inevitabile l’intervento della Nato a difesa dei musulmani di Bosnia; dall’altra un’Unione europea che, a trent’anni di distanza, ha sostanzialmente abbandonato i fratelli minori balcanici al loro destino e non dimostra alcuna intenzione di farsene carico. Non bastano le eccezioni croata e slovena (sottoposte peraltro ad una sorta di scrutinio perpetuo) a giustificare la sostanziale indifferenza dimostrata verso le istanze di una Sarajevo sempre più islamizzata e lontana dal cuore del continente.

Gli accordi di Dayton

Gli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra ma ben presto si rivelarono inutili per costruire la pace e la convivenza, meritano un capitolo a parte. Vero e proprio trattato di ingegneria politica, l’accordo disegnava un Paese a due teste in cui tre etnie omogenee avrebbero dovuto progressivamente integrarsi. In realtà è diventato una gabbia che ha sanzionato formalmente le divisioni che avevano originato il conflitto: “ha dato ragione alla guerra”, dice il vescovo di Sarajevo Sudar.

La bomba nello stagno

C’è poi la storia del non-paper, un documento informale scaturito da un incontro del 2021 tra il presidente sloveno Borut Pahor e la presidenza tripartita della federazione bosniaca. Una vera bomba nello stagno, di cui poco si è parlato (Lubiana smentisce). Si tratterebbe – nelle intenzioni di chi l’ha promosso – della soluzione finale del problema, una proposta che prevede il ritorno di ogni etnia alla nazione di appartenenza. Con relativa ridefinizione dei confini: una Grande Serbia, una Grande Croazia, una Grande Albania e i musulmani in quel che rimarrebbe della Bosnia attuale.

Il sogno di tutti i nazionalismi”, lo definiscono Battistini e Mian. Forse anche peggio. Della sua autenticità è lecito dubitare, della filosofia che lo sottende molto meno: è il fallimento di Dayton. Oggi la Repubblica Sprska è rappresentata nella presidenza rotatoria da Milorad Dodik, successore ideologico a pieno titolo di Karadžić (rinchiuso a vita nell’isola di Wight). Negazionista del massacro di Srebrenica, apologeta di Mladić, spinge di nuovo sull’acceleratore della storia proclamando la fine della coabitazione tra serbi e musulmani. La storia può ripetersi nei Balcani, basta innescare la miccia.

La lezione per l’oggi

Quando non ci sono né vinti né vincitori, la pace diventa difficile”, spiega ancora Sudar, senza capitolazione l’accordo è solo un compromesso che può saltare in qualsiasi momento. Lezione per l’oggi, mentre da Occidente si levano voci che consigliano agli ucraini cessioni territoriali per placare l’invasore russo, la cui possibile sconfitta è vista più come uno spauracchio che come un obiettivo da perseguire.

E sono molte le similitudini tra la tragedia jugoslava e la guerra scatenata contro l’Ucraina, a partire dalle parole che Vojislav Šešelj, l’ultranazionalista alleato di Milošević, pronunciò tre anni prima dell’inizio dell’aggressione serba: “Dove ci sono serbi, è Serbia“. Gli fa eco da Mosca trentatré anni dopo Vladimir Putin: “Dove ci sono russi, è Russia“. L’eterno ritorno dell’uguale.

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