No, il ‘900 non è finito: gli abbagli del globalismo, la rivincita della storia

Nodi irrisolti e dinamiche che riemergono in modo ancor più dirompente dagli equivoci della globalizzazione. Rischi di un mondo a-polare e interesse nazionale. Parla l’ambasciatore Vento

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Putin Jinping Neatnyau Zelensky

Il Novecento, definito frettolosamente “secolo breve”, si rivela oggi ben più vasto e sterminato del previsto. Questa è la tesi al centro de “Il secolo XX non è finito. Transizioni e ambiguità” (Rubbettino, 2024), saggio dell’ambasciatore Sergio Vento, in cui l’autore esplora il Novecento da diplomatico e testimone delle trasformazioni globali con la chiave del realismo e della ricerca dell’interesse nazionale.

Un Novecento che ha potuto osservare come civil servant, e come ambasciatore in Iugoslavia, Francia, alle Nazioni Unite e negli Stati Uniti. Oltre che come consigliere di presidenti del Consiglio (Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini) e di importanti ministri come Gianni De Michelis. Ne emerge un testo che unisce autobiografia e analisi storica, offrendo una lucida anatomia della politica estera italiana e delle questioni internazionali che ancora dominano nel nostro scenario a-polare. Delineando una galleria di incontri e protagonisti, che va da Frondizi e Elc’in a Hillary Clinton, da Chirac e Rabin a Berlusconi e Dini, che scandisce le tappe del suo lungo itinerario culturale e istituzionale oltre che illuminare i principali nodi del sistema Italia e degli equilibri europei.

Storia di un secolo “in-finito”

FRANCESCO SUBIACO: Ambasciatore Vento perché “il XX secolo non è finito” e in che modo le dinamiche novecentesche permeano ancora la nostra attualità?

SERGIO VENTO: Gli anni che vanno dalla fine della Guerra Fredda all’inizio del nuovo millennio sono certamente stati degli anni decisivi che hanno visto profonde mutazioni sistemiche. La caduta del Muro di Berlino, la riunificazione della Germania, il repentino collasso dell’Unione Sovietica, il tentativo europeo di costruire attorno alla riunificazione tedesca un momento cruciale nel percorso di integrazione comunitaria. Tutti fenomeni che hanno generato dei facili e giustificabili entusiasmi a cui si è accompagnato però uno sconcertante fideismo rispetto alla solidità e alla longevità di questi processi.

L’aspetto più fuorviante è stato, invece, quello di non comprendere e non valutare quali potevano essere i reali effetti, a medio e lungo termine, di questa straordinaria e travolgente accelerazione della storia che aveva accompagnato la prima fase della globalizzazione. Tanto da lasciare a distanza di oltre trent’anni un profondo disorientamento in tutti coloro che, all’indomani del crollo del sistema sovietico, avevano prefigurato e preconizzato un nuovo ordine internazionale basato sulla stabilità politica, la sicurezza condivisa e la crescita sostenuta e diffusa.

Il successo dell’Occidente con la fine della Guerra Fredda e del bipolarismo che l’aveva contrassegnata, avviava, agli occhi dei più, l’era della globalizzazione finanziaria, commerciale e tecnologica su basi tecniche, pragmatiche e non ideologiche. Archiviando come superati – a seguito di questa impostazione – fattori ineludibili. Come gli interessi strategici, le differenze culturali, le esigenze storiche e le evidenze geografiche.

Il titolo si riferisce, quindi, alla circostanza in cui di fronte ai fattori dirompenti che hanno accompagnato quell’arco di tempo – che va dalla caduta del Muro di Berlino al Trattato di Maastricht – ci si è illusi di poter lasciare irrisolti tutti i processi ereditati dalle logiche novecentesche che la fine dello scontro ideologico lasciava presumere obsoleti.

I nodi irrisolti

FS: Un’aspettativa delusa ovviamente…

SV: Quel XX Secolo così drammatico e pesante – segnato dal trionfo e dal crollo del colonialismo, dall’ascesa e dalla sconfitta dei totalitarismi – con quella accelerazione dei suoi sviluppi così immediata e improvvisa ha lasciato, infatti, aperti e irrisolti i suoi principali nodi e processi. Ma oggi, invece, essi riemergono più vivi e dirompenti che mai.

Dalle tensioni dell’Indopacifico (pensiamo alle eredità della Seconda Guerra Mondiale in Asia e alle fibrillazioni tra Taiwan e Cina) alle evoluzioni del governo cinese che si è trasformato da un paese dominato da un comunismo di sussistenza ad un “impero” mercantilista, divenuto un colosso economico anche grazie agli investimenti statunitensi, giapponesi, tedeschi e coreani.

Oppure pensiamo alla crisi del Mediterraneo allargato: dalla difficile condizione delle diatribe israelo-palestinesi alla pessima e sconsiderata gestione del fenomeno dell’Islam politico (a cominciare dai Fratelli Musulmani) che nel XXI secolo ha mostrato il suo lato peggiore e più destabilizzante.

Ebbene, le logiche del XX Secolo non sono affatto finite con quella dimensione di armonizzazione e globalizzazione con cui si è aperto il nuovo millennio. Ma anzi di fronte alla riemersione di questi processi, emerge uno scenario ambiguo e incerto. Un futuro imperscrutabile in cui questi fenomeni si ripresentano più assertivi e dirompenti di prima.

Oggi ci troviamo, infatti, ad analizzare e valutare ipotesi di un conflitto irrecuperabile in Europa e in Asia, mentre vengono misurati l’impatto della de-globalizzazione delle supply chains e persino l’ipotesi concreta della riduzione del ruolo del dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali e delle riserve ufficiali.

Guerre, pandemie, ascese di nuovo imperi e ritorni di antichi nazionalismi e di fenomeni novecenteschi. No, il XX secolo non è finito e con esso non sono finite le sue logiche, i suoi destini, i suoi processi in questa epoca di “transizioni” e “ambiguità” (come ho voluto ricordare nel sottotitolo del mio libro). Ma anzi proprio sul confronto con essi si gioca il vero esaurimento del Novecento e l’inizio di una nuova fase i cui contenuti e caratteri sono ancora opachi e indefiniti.

Gli abbagli del globalismo e la rivincita della storia

FS: Nelle pagine più sistemiche del suo saggio individua i limiti e gli errori di questa fase che hanno portato a questa condizione di estensione del novecento. A cosa sono dovuti questi fenomeni di permanenza delle logiche del secolo XX?

SV: Ciò è stato possibile a mio avviso a causa di tre errori di valutazione che sono all’origine del deterioramento degli scenari della cosiddetta “fine della storia” (smentita dalle evidenze storiche oltre che dal suo stesso teorizzatore). E che stanno mostrando oltre ad una “rivincita” della Storia, una rivincita della geografia (parafrasando un fortunato testo di Robert Kaplan).

FS: Ovvero?

SV: In primo luogo, la sopravvalutazione della cosiddetta fine della Guerra Fredda. Cioè aver scambiato la transizione alla liberaldemocrazia e al mercato di sei Paesi dell’Europa orientale e di tre Paesi baltici per la fine degli antagonismi e delle diffidenze nei rapporti di sicurezza tra la Russia e l’Europa centro-orientale.

Con un allargamento del perimetro sia dell’Alleanza Atlantica che dell’integrazione comunitaria fino al cosiddetto Estero Vicino (secondo il monito del pur moderato Elc’in), di cui si sono sottovalutate le conseguenze e di cui si è sopravvalutata la capacità di integrazione. Un’integrazione che si pensava di porre come rimedio e che invece non ha fatto altro che inasprire – in molti casi – le dinamiche di sicurezza e i rischi di conflitto.

In secondo luogo, gli equivoci della globalizzazione con la Cina, che dopo aver facilmente superato il ruolo di “fabbrica del mondo” ad alta intensità di lavoro, si sta proiettando verso una crescita tecnologica e geoeconomica attraverso la Belt and Road Initiative e da ultimo con la crescente affermazione del renminbi negli scambi con le potenze petrolifere del Golfo, attratte dalla Shanghai Cooperation Organisation e dal movimento dei Brics.

Un processo che ha smentito le possibilità di integrazione cinese attraverso le economie globali, ma anzi ha rivelato – tramite un ingresso probabilmente prematuro nel WTO – una sua nuova dimensione strategica e egemonica.

Infine, la sottovalutazione delle nuove, embrionali aggregazioni del Global South, dall’India al Brasile ed al Sud Africa con ramificazioni nei rispettivi continenti attorno al formato dei Brics allargato. Ampliando il divario tra il West e il Rest, come recita il titolo dell’opera di Niall Ferguson, dopo una fase di frettolosa euforia unipolare da Clinton a Obama di cui forse solo ora vediamo tutte le evidenze, tutti gli abbagli, tutte le ramificazioni.

Il mondo bipolare ha avuto, infatti, un breve periodo unipolare negli anni ’90, ma già dopo l’11 Settembre si è passati ad un mondo a-polare, dove la capacità delle singole grandi potenze di incidere sulle grandi tematiche è andata scemando. Tanto che c’è chi si chiede quanto gli Stati Uniti abbiano una influenza determinante e un ruolo convincente nei Paesi del Medio Oriente ad esso alleati come Turchia, Israele e Arabia Saudita…

I rischi di un mondo a-polare

FS: Quali sono le caratteristiche di questo scenario in cui siamo immersi che per alcuni è di nuova Guerra Fredda mentre per altri di uno scricchiolante unipolarismo?

SV: Si tratta, a mio avviso, invece, di una fase a-polare del nostro (dis)ordine internazionale, priva di un effettivo e funzionale coordinamento globale internazionale, oltre che di una governance condivisa o definita. Uno scenario in cui il rischio che le situazioni di crisi possano sfuggire di mano, ed evolversi verso tragiche escalation, di fronte a miopi interessi revisionisti o egemonici, è profondamente concreto e incombente.

L’interesse nazionale

FS: Nel libro, dopo numerosi prognosi e analisi propone anche alcune terapie per un ruolo italiano più consapevole e capace di perseguire l’interesse nazionale. Può parlarcene?

SV: Nel mio saggio individuo due suggerimenti pratici e operativi. Il primo è che l’Esecutivo deve dotarsi di un Consiglio per la sicurezza nazionale, sul modello statunitense, capace di affrontare le sfide strategiche con continuità, autorevolezza e lungimiranza. Una soluzione finora osteggiata dalla ragnatela di mediocri posizioni di intermediazione quotidiana, interna al nostro Paese…

Il secondo è che il Parlamento e le forze politiche dovrebbero trovare una sede di analisi conoscitiva e di sintesi operativa sul modello della Stiftung fur Wissenschaft und Politik di Berlino. Cioè una sede per un confronto attivo e permanente fra gli esperti dei partiti presenti nel Bundestag. Evidentemente non si tratta di soluzioni immediate, alla luce delle incertezze e contraddizioni presenti anche a Washington come a Berlino, ma nel caso dell’Italia e della sua storia di particolarismi costituirebbero un vistoso progresso.

In entrambi i casi, si tratta di strumenti di elaborazione di una piattaforma strategica condivisa per l’affermazione dell’interesse nazionale. Quest’ultimo va infatti innanzitutto accuratamente identificato per evitare le “improvvisazioni” e le “approssimazioni” che nella storia unitaria del Paese hanno portato a scelte velleitarie o viceversa rinunciatarie.

In secondo luogo va assicurato il controllo coordinato e coerente, da parte dell’Esecutivo e del Parlamento, di tutte le “policies” – industriali, tecnologiche, energetiche, finanziarie – intese a mobilitare nel medio termine le risorse, materiali ed umane, indispensabili per il perseguimento dell’interesse nazionale.

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