“Perchè fa così la gente istruita, ha paura della gente ignorante.”
È il 1938 quando Valentino Bompiani pubblica “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro, romanzo distopico che fu oggetto di censura fascista per la rappresentazione di un oscuro regime totalitario; è l’estate del 2018 quando la stessa casa editrice lo ripubblica e per certi versi sembra che il tempo non sia mai passato. È impossibile non notare una serie di analogie con il presente e se il lettore del 1938 condivideva coi personaggi un costante senso di angoscia e inquietudine, ottant’anni dopo rischia di essere pervaso dalle medesime sensazioni.
Il protagonista è l’ingegner Dale, trentaduenne rientrato in patria a seguito di una guerra tra “bande” e “partigiani”, etichettato come “straniero” e pertanto pericoloso, che ritrova il suo paese in mano a un dittatore dalla fronte bassa e i baffi neri e corti ed immerso in un clima opprimente di terrore e sospetto.
Di quale paese si tratti non è dato sapere, i luoghi non hanno un nome, potrebbe essere la Russia dei Soviet o l’Italia fascista o magari l’ambientazione è riconducibile ad entrambi, certo è – come l’autore stesso tenne a precisare – che il censore lo obbligò ad indicare che l’azione si svolgeva in Russia, oltre a costringerlo a cambiare titolo al romanzo, partorito in principio come “Paura del mondo”.
È infatti un costante senso di paura ad accompagnare Dale insieme a Barbara, figlia di “nemici del popolo” alla quale il protagonista è legato da un amore che dona un senso a tutto ciò che li circonda, nonostante si tratti di un mondo in cui lo Stato ha assunto il dominio assoluto sulla vita pubblica e privata dei cittadini e dove anche l’amore viene osteggiato in quanto elemento di corruzione dell’animo umano.
In anticipo di una decina d’anni rispetto agli scenari orwelliani di “1984” ci imbattiamo in uno Stato che come un grande occhio occulto sorveglia la vita quotidiana e con un orecchio onnipresente giunge ad ascoltare ogni parola pronunciata fin nelle stanze private dei suoi cittadini, servendosi anche di Inquisitori che misurano pensieri e intenzioni dell’uomo, in una società dove nessuno capisce più cosa sia proibito e dove tutto potrebbe essere bollato come delitto, una società in cui anche l’apparenza della colpevolezza potrebbe essere una colpa.
La principale colpa dell’uomo per il visionario Alvaro risulta quella di non essere come tutti – condizione facilmente ravvisabile nella società attuale con la mania collettiva che tutto riconduce al politicamente corretto – soprattutto in un regime dove la politica è quella di distruggere tutto ciò che è privato, personale, intimo, considerato causa di tutti i mali dell’umanità, senza calcolare che in tal modo il rischio è invece di alimentare proprio quel senso individuale che si vuole eliminare, quando “l’individuo, sentendosi aperto da tutte le parti, cercherà i suoi segreti in cose che in condizioni diverse non lo interesserebbero affatto”.
Nella sua narrazione fantapolitica l’autore compie una realistica disamina del dispotismo ideologico che caratterizza un autoritarismo volto alla collettivizzazione della società, contrapponendo ad esso una visione liberale e allo stesso tempo reazionaria.
Il protagonista tende infatti ad avversare il forte antistoricismo propugnato dagli esponenti del regime, a detta dei quali per costruire un mondo nuovo e un uomo nuovo risulta necessario cancellare il passato al fine di evitare che un altro mondo possa contrastare con quello che si immagina di realizzare, ovvero un mondo privo di dubbi, di segreti, di ombre, di veleni di desideri e nostalgie e soprattutto dove sia stato profondamente estirpato il senso privato, il sentimento della propria persona. Dale nega fermamente questa visione riscoprendo in sè un orgoglio per il mondo in cui ha vissuto e ritrovando in vecchie leggi e antiche consuetudini il seme di qualcosa che rimane vivo malgrado i tempi, con la consapevolezza che pure in un nuovo mondo sarà sempre impossibile prevedere delle leggi che regolino ogni aspetto della vita umana e soprattutto ogni delitto.
Ed è proprio il delitto ad avere un ruolo centrale nella narrazione, laddove il regime manifesta apertamente la necessità di crimini e soprattutto di colpevoli, veri o presunti, da dare in pasto alla società, a quella folla che si eccita all’idea della giustizia e della condanna a morte altrui. Così il contesto descritto, partecipando pur involontariamente alla perdizione di quell’uomo che porta con sè il fardello della colpa, può indurlo a commettere realmente un delitto per trovare una forma di liberazione nel suo intimo bisogno di confessare – in questo caso a quello Stato che ha sostituito la religione – e di espiare quella colpa stessa come sotto l’occhio di un dio.
Del resto, per citare l’etica dostoevskijana, “se Dio non esiste, tutto è permesso”.