Nell’attuale panorama politico, contrassegnato dal culto del nuovismo e da un presentismo che ci vuole tutti alla mercé dei più recenti tweet, il libro di Giacomo Ciriello, “La mafia si può vincere” (Ed. Aragno, in libreria dal 10 settembre), si segnala come una riflessione – profonda e dettagliata – sulla lotta dello Stato alle mafie. L’autore è stato per oltre tre anni “the eyes and ears”, gli occhi e le orecchie, di Roberto Maroni al Viminale, ricoprendo, nonostante la giovane età, il delicato ruolo di capo della segreteria del ministro dell’interno.
Con precisione certosina, Ciriello racconta la storia di un’epoca che rischiava di cadere nel dimenticatoio, e che vide tutti i poteri dello Stato collaborare intensamente e fattivamente per sconfiggere la criminalità organizzata.
Una lotta che Maroni volle mettere al centro della sua attività di ministro, e che rappresentò il perno su cui costruire la credibilità del IV Governo Berlusconi (2008-2011), la cui debolezza sul tema fu più volte ribadita da una copiosa letteratura di professionisti dell’antimafia riluttanti ad accettare che la lotta alla criminalità fosse portata avanti in modo bipartisan da un governo di centro-destra e da un ministro leghista.
La lotta prese il via nel primo Consiglio dei ministri del nuovo governo, il 21 maggio 2008, quando Maroni, con l’ausilio dei suoi principali collaboratori politici e amministrativi del ministero, presentò un primo “Pacchetto Sicurezza” con norme di varia natura per dare, immediatamente, forma e sostanza alle sue idee. Il pacchetto prevedeva interventi finalizzati a colpire gli interessi economici della mafia, a controllare meglio i territori in cui la criminalità spadroneggiava e a inasprire le pene nei confronti dei mafiosi. Il tutto – ci tenne a rimarcare il ministro – in continuità con quanto di buono aveva in mente il suo predecessore, Giuliano Amato, e nello spirito che ha sempre contraddistinto il suo operato: se un’idea è valida non importa chi la propone, ma si porta comunque avanti.
I dati di quegli anni, che videro il Viminale lavorare a stretto contatto con le sue articolazioni territoriali, le Questure, le Prefetture, gli altri ministri interessati alla partita, la Procura Antimafia e le Forze dell’Ordine, sono eloquenti: nel primo anno “pieno” di Viminale a guida Maroni, i beni mobili e immobili sequestrati alla criminalità organizzata triplicarono da oltre tremila nel 2007 a 9.680, per arrivare a 21.925 nel 2010. Il valore dei beni sequestrati passò da 1.670 milioni di euro nel 2007 a 9.117 milioni nel 2010. Un successo a cui Maroni diede seguito aprendo alla loro
cessione – e riutilizzo – a fini sociali.
Infine, last but not least – è proprio il caso di dirlo – 28 dei 30 più pericolosi latitanti furono arrestati, grazie al coraggio e all’abnegazione di uomini come l’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, cui è dedicato il volume.
La prefazione del prefetto Giuseppe Procaccini, all’epoca capo di gabinetto del Ministro, restituisce quegli anni alla loro dimensione più fervida, quella del lavoro al Viminale e alla professionalità di chi ha contribuito alla lotta. In un’epoca in cui si parla di chi lavora nell’amministrazione dello Stato – alta o bassa che sia – spesso in termini di “fannulloni” o “parassiti”, restituire una dignità a chi davvero crede nelle istituzioni, sembra, a ben vedere, uno dei risultati più lampanti di questo libro.