Da quando è diventato direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano ci ha regalato mirabili puntate di Tg2Dossier dedicate al 40esimo anniversario dell’ascesa al potere di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Intellettuale raffinato e già autore di preziosi volumi su Trump, Putin e Xi Jinping, Sangiuliano ha anche partecipato alla stesura del “Rapporto sull’interesse nazionale” pubblicato dalla Fondazione Fare Futuro di Adolfo Urso, con un brillante saggio intitolato “Per un’idea di Nazione nel Terzo Millennio”.
Ed è proprio l’idea di nazione al centro del suo ultimo libro, dedicato a “Reagan – Il presidente che cambiò la politica americana” (questo il suo titolo), edito in questi giorni per i tipi di Mondadori. Sangiuliano va a colmare un vuoto nella letteratura contemporanea su Reagan in Italia: finora pochissimi scrittori e giornalisti si sono cimentati nell’analisi dei suoi 8 anni (1980-1988) alla Casa Bianca, e se non fosse stato per l’opera meritoria della casa editrice Giubilei Regnani, non avremmo nemmeno avuto la possibilità di leggere lo spettacolare “Ronald Reagan, un conservatore alla Casa Bianca” di Ed Meese.
Reagan era un patriota conservatore, accortosi che gli Stati Uniti sarebbero scomparsi seguendo il corso delle politiche portate avanti da Jimmy Carter nella seconda metà degli anni Settanta. Così portò avanti il suo sogno americano fatto di Stato minimo, libera intrapresa, credo incrollabile nella bontà dei suoi concittadini e nella superiorità dell’America rispetto all’Urss. Tutto questo portò gli Stati Uniti a sconfiggere l’Impero del Male e ad avere una crescita economica – premessa per il benessere di una Nazione sana – senza precedenti. “Non ero un Grande Comunicatore – disse Reagan al termine dei suoi 8 anni alla Casa Bianca – Semplicemente avevo grandi idee da comunicare”.
Il Reagan ritratto da Sangiuliano parte dall’inizio della sua carriera politica come capo del sindacato attori di Hollywood nelle fila del Partito Democratico e arriva fino alla fine della sua presidenza, con la straordinaria legacy lasciata in dono a George H. Bush, il successore mai troppo amato da The Gipper, e a tutto il Paese: credete in voi stessi prima di credere a me. Ma da quando si mise in luce con il celebre discorso “A time for choosing” nella convention repubblicana che confermò Barry Goldwater come candidato presidente del Gop alle elezioni del 1962 al 1979, anno della sua investitura, Reagan ha anche dovuto affrontare delle sconfitte all’interno del partito che ne stavano per pregiudicare la carriera: contro Nixon nel 1968 e contro Ford nel 1976. Quando i Repubblicani lo scelsero infine nel 1979 in molti vedevano nel 69enne ex governatore della California un candidato che aveva già avuto alle spalle i suoi giorni migliori.
La sua rivoluzione conservatrice – ben evidenziata da Sangiuliano che tratteggia l’humus culturale della destra americana in quegli anni – funzionò e riuscì a ottenere il plauso, e soprattutto i consensi, della common people e della middle class americana, stufa della stagflazione e del disfattismo carteriani. Un’elezione che avrebbe dovuto essere “too close to call” si trasformò in una vittoria schiacciante per il Gop e, nel 1984, grazie anche all’apporto dei Reagan Democrats, la vittoria si fece trionfo con il presidente uscente che battè il Democratico Walter Mondale in 49 Stati su 50.
In un suo saggio sulla presidenza Usa, il politologo conservatore Henry Olsen scrisse che qualsiasi candidato presidente doveva semplicemente entrare nella testa di elettori che si chiedono solamente una cosa: “Questo politico ha a cuore gente come me?”. Ronald Reagan dimostrò di avere a cuore tutta l’America e di capire il sentimento popolare che stava imperversando nel Paese traducendolo in politiche efficaci sostenute da un’adeguata comunicazione. Una lezione per tutti anche ai giorni nostri.