Rocco e i suoi flagelli: fenomenologia del Portavoce

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E se a Nietzsche per vaticinare la morte di Dio ci vollero gli accorati canti di Philipp Mainlander e l’utilizzo anti-metafisico della filologia, a me, assai più banalmente, è bastata una fugace visita in libreria. Da tempo ormai le librerie si sono trasformate in campi di morte, per dirla alla Caraco; vaste e desolate terre che non avendo in comune nulla con la funerea consistenza del capolavoro di Eliot si vanno rendendo cimiteri dell’intelligenza, in una geologica sedimentazione di libri di comici, calciatori, vippetti, gossippari assortiti, instant-book che ci spiegano il Covid, la crisi finanziaria, gli hacker, Berlusconi, Conte, Draghi, e chiaramente testi di politici o aspiranti tali.

Dopo essermi sottoposto alle inumane vette di masochismo, una specie di 120 Giornate di Sodoma librarie, dettate dalla lettura del capolavoro di Roberto Speranza, mi sono preso una vacanza da me stesso, rifugiandomi, al fine di evitare una cirrosi epatica o il burnout, in letture che non lambissero alcunché di attualità o cronaca politica. Finchè…

Finché non mi sono imbattuto nel libro di Rocco Casalino. Pubblicato dalla Piemme. A dire il vero non ho mai pensato nemmeno lontanamente di comprarlo. Perché per quanto io sia di gusti forti, per quanto non mi spaventino i contenuti ballonzolanti nel dark web e pur avendo maturato un solido background che da Ogrish passa per Rotten fino alle serie tipo “August Underground” o la filmografia di Jorg Buttgereit o di Marian Dora, per quanto il mio stomaco si sia nutrito di qualunque forma di ballardiana atrocità esibita in postmoderna mostra, c’è un limite oltre il quale si stendono solo, come cantavano i Diaframma in “Siberia”, ghiaccio e silenzio.

Ma non averlo letto, non mi impedisce certo di parlare del libro di Casalino, perché quello non è un libro ma un sigillo e un suggello del personaggio Rocco Casalino. L’ho comunque sfogliato, sia chiaro. E tanto mi è bastato.

Talmente egoriferito e autoreferenziale da far assumere vette nuove al concetto stesso di ‘portavoce’; perché un tempo il portavoce era un essere quasi alchemico, monastico, grigio e invisibile, che si aggirava per aule stuccate e affrescate, vergando ogni singola parola di discorsi e comunicati stampa del proprio Signore, del vero potente. Avvolto da un sudario di impermanenza e invisibilità, anodino, trascolorante tra arazzi e cerimoniale, non compariva mai, era puro spirito, pura comunicazione, singole parole che danzando nell’aria componevano melodie di senso istituzionale e che sembravano dar ragione al motto di Crowley, messo nero su bianco nel “Liber vel al Legis”, “lascia che i miei servi siano pochi e sconosciuti e che essi governino i molti e i conosciuti”.

Ed invece Rocco Casalino ha mutato tutto. E già nella copertina, ologramma di un ‘House of Cards’ alla amatriciana, si capisce il rovesciamento complessivo: non più machiavellica figura obliqua e laterale ma epicentro del potere, o meglio della percezione di ciò che dovrebbe essere il potere. Caciarone. Rumoroso. Colorato e colorito. Social e fanfarone.

Perché Rocco ambirebbe a rappresentare il fulcro di ogni manovra, di ogni mossa, della costruzione stessa del presidente di cui ha portato le parole e la voce, quel Giuseppe Conte che ancora oggi inquieto e irrisolto cerca di dettare una agenda politica pur essendo fuori da tutto e pure dall’elenco del telefono dei 5 Stelle. Anche nelle poche recensioni che provarono a dare una immagine quasi seria del libro, come quella apparsa su Wired, alla fine si deve ammettere che il valore del libro è semplicemente quello di ulteriore tassello nel percorso di costruzione del culto della personalità di Rocco ad uso e consumo e beneficio di Rocco stesso.

Ma Rocco, è chiaro, indispone. A partire già dal nome. Perché Rocco è un nome tonitruante, che per la nostra storia patria ha sempre avuto un determinato peso.
Rocco Chinnici.
Rocco Schiavone.
Rocco Barocco.
Rocco Siffredi. Ed io che sono cresciuto guardandomi “Rocco invade la Polonia”, mi sono ritrovato con “Rocco si geolocalizza in Libia”, messaggini Whatsapp di incontinenza istituzionale spediti ai giornalisti manco fosse al luna-park a mangiare zucchero filato e non in una terra in cui si è usi ancora prendersi a colpi di cannone ed autobomba.

Rocco indispone anche per quell’aura di velenoso outsider: nel libro deve rimarcare in ogni singolo passo, la sofferenza, le mancanze, le assenze, i dolori, l’idea di essersi fatto da solo, e di aver voluto raggiungere dei traguardi che però poi alla fin fine non si capisce se siano esistenziali o di puro esercizio del potere. Una sorta di estasi inebriata che invade i minuti, le ore, i giorni. E se volessimo esser seri, per un istante, verrebbe da dire che l’abbiamo scampata bella ad aver fatto concentrare tanto potere nelle mani di chi il potere lo osservava, e lo considera ancora oggi, con una bramosia quasi pornografica.

E in fondo, lo si era capito persino in quelle conferenze stampa di Conte le cui riprese erano talmente slabbrate, per includere il portavoce che se ne stava in posa ieratica, con prossemica da Conducator, da sembrare delle aerofotogrammetrie satellitari.

E d’altronde pure una di queste mattine, Rocco il portavoce ha pensato bene di dare il buongiornissimo caffè ai giornalisti che si tiene in rubrica Whatsapp facendo loro presente che i diritti cinematografici del libro sono stati acquistati da una casa di produzione. Ciò significa che “Il Portavoce” diventerà un film? Assai probabilmente no, anche se il nostro Rocco lo ha lasciato intendere: in realtà, le case di produzione in genere spazzolano tutto lo spazzolabile, in una sorta di occupazione manu militari del senso collettivo dei gusti. Devono avere nell’armadio qualunque cosa, e quella roba un giorno magari sarà di interesse e ci faranno davvero un film.

Dopotutto nel nostro Paese sono divenuti film roba come “Alex l’Ariete”, con un micidiale Alberto Tomba e il suo risotto alle erbette, e “Troppo Belli”, con gli allora tronisti Daniele e Costantino in una sorta di riedizione trash di “Sposerò Simon Le Bon”, che era già trash di suo. E dopotutto nel nostro Paese, è stato realizzato un film, “La croce dalle sette pietre”, meglio noto come “Il lupo mannaro contro la camorra” che ha beneficiato addirittura di finanziamenti pubblici. Poi dice che uno diventa anarco-capitalista.

Quindi, voglio dire, non mi stupirebbe veder davvero realizzata una pellicola incentrata sulla ascesa di Rocco, Portavoce di se stesso. Perché per chiunque abbia pensato davvero che Casalino fosse il portavoce di Conte, bè voglio darvi una notizia: tra Casalino e Conte c’è un rapporto che ricorda l’intensità e la dinamica instaurata tra Rockfeller e Luis Moreno.

Ma che film sarebbe mai, se davvero venisse realizzato? Lo immagino come uno di quei film con titoli del genere; sceneggiato da Rocco Casalino, diretto da Rocco Casalino, con musiche di Rocco Casalino, interpretato da Rocco Casalino, con costumi di Rocco Casalino, tratto da un libro di Rocco Casalino. Perché non ce li vedo gli attori sottoporsi ad estenuanti provini per incarnare la fisiologia e la mentalità del Portavoce che si vedrà, lui, quando si specchia la mattina, recitando il mantra della Regina di Biancaneve, come un misto di Kevin Spacey, Orson Welles, Joseph Fouchè, ma che poi stringi stringi rimane un pentastellato ex gieffino la cui forma di comunicazione è la occupazione totale e aggressiva di ogni spazio di informazione o, come direbbe Vittorio Sgarbi, di shitstorm.

Probabilmente sarebbe un “Quel che resta del giorno”, ma senza l’eterea e algida consistenza inglese, ambientato nella suburra romana e con al posto di Anthony Hopkins, Bombolo (pace all’anima sua) a fare il maggiordomo che tiene le redini di tutto.

D’altronde, tra Taverna, Bonafede, Conte, Di Maio e compagnia bella, di cui Casalino era e rimane il Sauron della comunicazione, mi sembra che il target perfezionato per una bella pellicola sia quello di un “Quarto potere” girato a Torre Maura, in stile Tomas Milian. Forse però con più parolacce…

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