I mancini si sa, sono una delle manifestazioni del Maligno, come insegnano tutte la dicerie popolari. I mancini nel calcio, poi. Dio ce ne scampi. Gli allenatori non li possono vedere, devono insegnare loro le stesse cose, almeno due volte. È come con la guida in Inghilterra: non ti abitui mai. Ti manca la prospettiva, la direzione salta, il senso dell’orientamento tracolla. A proposito d’Inghilterra. Dev’essere sembrato un autotreno contro mano Diego, quando, durante quegli infuocati quarti di finale del campionato del mondo in Messico nel 1986, s’è incollato la palla al piede sinistro, ne ha scartati due in piroetta prima del centrocampo, un fulmine sulla fascia destra, il rientro a scartare un primo difensore inglese, poco fuori l’area il secondo come un birillo fastidioso, il portiere che esce, e tu che sei lì e dici adesso tira adesso tira e invece lo aspetta, lo fa cadere, lo dribbla e con lo stesso mancino (mentre il difensore tentava disperatamente di buttarlo giù da dietro) tocchetta la palla in rete. Fu proprio in quella stessa partita che il Mancino sfidò Dios, segnando un gol di mano, di fronte al mondo intero che non aveva ancora i neuroni sufficienti per ipotizzare il VAR (tranne Aldo Biscardi, che una sera sì e l’altra pure ne parlava al suo Processo. La moviola in campo, la chiamava, bontà sua!). Dicevamo: il colpo di mano del vantaggio argentino spacciato per un colpo di testa di un nanetto in mezzo ai colossi di sua maestà. E chi ci poteva credere? Solo un illusionista (e l’arbitro), o un Hijo del demonio che, poi, avrebbe dato al suo Avversario il merito: è stata la mano de Dios a segnare, aveva sentenziato a fine partita. E da lì via in semifinale per la conquista della seconda coppa del mondo argentina (la prima fu quella un po’ tarocca del 1978 coi generali argentini di Videla che avevano organizzato un mondiale come avrebbe potuto fare un qualsiasi presidente di provincia, e dove il nemico non era tanto l’Olanda battuta in finale quanto il suo capitano Johan Cruyff, che per protesta non era nemmeno partito dandogli dei fascisti).
Diego, mannaggia! Sessant’anni fra meraviglie e marachelle.
Ve li ricordate i suoi occhi da pazzo quando al mondiale negli Usa del 1994 aveva segnato contro la Grecia uno dei suoi gol pazzeschi di sinistro, da fuori area? L’ultimo della sua carriera in nazionale, soprannominato El Grito in onore del Grido di Munch, il quadro. Tutti dicevano… eh ma quello sniffa, eh ma quello sta fuori de cabeza, eh ma che squadra quella che non è riuscita nemmeno ad arrivare ai quarti, buttata fuori dalla Romania di Hagi… Ve lo ricordate? Batistuta, Zanetti, Caniggia, Redondo, Simeone, Ortega, Balbo, eppure…
Eppure siamo qui, in questo infausto anno 2020, anno bisestile, anno da dimenticare, a celebrare la scomparsa di quello che molti sostengono sia stato il calciatore più grande della Storia del Fútbol. Una storia di poco più di un secolo ma comunque bella lunga. Diego Armando Maradona che fece grande Napoli, due volte, che sfidò i Poteri Forti di allora (ma anche di oggi) prendendosi gioco prima della Vecchia Signora dell’Avvocato e poi del Diavolo (quello finto) rossonero. Se non ve lo ricordate andatevi a vedere il suo gol su punizione a Tacconi, era il 3 novembre 1985, Napoli-Juve 1-0; stava dentro l’area di almeno un metro, con una barriera di corazzieri e uno spazio sotto l’incrocio di pochi centimetri. Una traiettoria che sfida tutt’oggi le leggi della fisica e che solo un mancino pazzo poteva piazzare lì sotto. Per un paio d’anni Diego ha dato l’illusione all’Italia intera che le corazzate del nord non fossero imbattibili, che in fondo chi è bravo alla fine la spunta. Non era così, ovviamente. Era talmente un gigante in campo che nemmeno imbrogliando i marpioni nordisti riuscirono a fermarlo. Ma qui in molti dissentiranno e pazienza.
A noi Diego piace ricordarlo per quello che ha fatto sul prato verde e non in mezzo alla strada, non in casa sua, non nei letti delle donne che ha conquistato, sedotto e lasciato, non in politica, non sulla panchina della sua nazionale nell’osceno mondiale sud africano del 2010, dove con una squadra stellare, forse la più forte Argentina di tutti i tempi, almeno potenzialmente, non riuscì a superare i quarti. Diego per noi sono gli anni ’80 che la sera in tv i gol li vedevi a 90° Minuto o alla Domenica Sportiva con Giampiero Galeazzi che lo andava a scovare fuori dagli spogliatoi (e non c’erano quelle orribili interviste cartellonate negli appositi spazi sponsor) e gli chiedeva “insomma Diego che colore è il gol (quello contro la Juve su punizione, ndr)”? Sono gli anni di Drive In a tarda serata, con Umberto Smaila che mostra tette e culi dopo il calcio (quando ancora la tv era dominata dal “patriarcato maschilista”) e alle 19 della domenica c’era la replica della partita, una a scelta dai facitori del palinsesto nazional popolare, e tu speravi, spesso invano (soprattutto se tifavi Casertana o chessò, Avellino), che ti regalassero la visione della tua squadra. Anni di canzoni indimenticabili, di ferie quattro mesi l’anno, di notti di coppe di campioni, come cantava Antonello Venditti.
E Diego fu la ciliegina sulla torta di un’Italia pallonara e sognatrice. Avevamo vinto i mondiali di Spagna dell’82 con Paolo Rossi assurto alle glorie internazionali, il presidente della Repubblica Pertini che benediva il popolo italiano dal palchetto di Madrid e di fronte all’odiato nobile di casa real madridista, e i campionati se li giocavano Roma e Juve. E Diego, appunto, era arrivato come un regalo dal cielo. Ah, chissà se un giorno qualcuno ci racconterà quali carte false abbia fatto Ferlaino per portarlo a Napoli. Forse eravamo un Paese che contava ancora qualcosa, nel calcio anche. Chiudiamo con una nota di colore. Quando Diego si allenava scommetteva con i compagni che avrebbe colpito l’incrocio dei pali da fermo. Nessuno accettava, sapevano che avrebbero perso. Coi mancini de Dios e/o del diavolo non si scherza, figuriamoci se si scommette. Una preghiera ora che sei lassù; regalaci un altro hijo forte come te, fallo rinascere magari in Italia, che ne abbiamo tanto bisogno.