L’altra faccia del lunedì – Salvini a Washington: l’intesa con Trump “esistenziale” per l’Italia (e la Lega)

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Non serve ribadire, soprattutto qui, l’estrema importanza del viaggio ufficiale di Matteo Salvini negli Stati Uniti, che proprio oggi comincia. Estrema a ben vedere è eufemistico, ma nella lingua italiana non mi viene un aggettivo ancora più rafforzativo, se non a definirlo, senza enfasi, “esistenziale”. E non solo per il destino del governo, che è cosa transeunte e figuriamoci in Italia, e poi Conte non è certo la nostra cup of tea per via di molti ministri, tecnici e politici, che stanno andando nella direzione sbagliata, anche con gli Usa.

No, è un rapporto, quello con l’America di Trump, esistenziale per il futuro della Lega e per quello del paese. Faremo sentire le nostre ragioni all’interno della Ue solo con il sostegno americano, diventando tra i migliori alleati di Washington (ora lo sono la Polonia e, con Boris Johnson a Downing Street, il Regno Unito, per il poco tempo che speriamo vi resti), ma soprattutto all’interno dell’area euro. Qualcuno direbbe: bei sovranisti siete. Ma i nazional-conservatori (definizione che preferisco) non sono così fessi da evitare di stringere alleanze, solo che vogliono allacciarle facendo decidere alla nazione quale sia il migliore partner, e non sulla base di regolamenti, come quelli europei, su cui il Parlamento mai ha legiferato.

Nonostante la mascalzonata che il governo ha combinato sulla Cina, nei confronti se non dell’Esecutivo almeno della Lega, Washington pare fortunatamente ancora nutrire fiducia, e poi il 34 per cento aiuta! Lo dimostra l’alto livello degli interlocutori di Salvini, dal vice presidente Pence al segretario di Stato Pompeo. Come ha scritto Paolo Mastrolilli sul La Stampa del 15 giugno, molto onore per un Salvini che, agli occhi diplomatici, è “solo” ministro degli interni, essendo la carica di vice premier in sé del tutto informale. Ma tanto onore come contropartita richiede una buona dose di oneri. Come ha scritto Daniele Capezzone su La Verità di ieri, sono tre i dossier chiave su cui Salvini dovrà fornire assicurazioni soprattutto a Pompeo: Venezuela, Russia e soprattutto Cina.

Tralasciando il Venezuela, pure assai importante, Russia e Cina sono due questioni legate tra loro. Per Trump il vero nemico strategico è Pechino e, anche se Pompeo e Bolton sembrano pensarla diversamente, a noi pare che il disegno del presidente si prefigga, in un secondo mandato, un grande deal storico con la Russia che la sganci dalla Cina; a cui, vanificando decenni di diplomazia iniziata da Nixon e Kissinger, lo sciagurato Obama l’aveva riavvicinata. Per ora ci sono solo timidi segnali: alcuni interventi di Walter Russel Mead sul Wall Street journal, dichiarazioni sibilline di Trump che dice di non aver problemi ad accettare in futuro informazioni straniere, un Bannon che non si sa quanto conti, ma intanto è da giorni in Francia ad elogiare la filo russa Marine Le Pen, a ripetere che il vero nemico dell’Europa è la Cina e, sul numero del settimanale Valeurs actuelles attualmente in edicola, a scagionare Salvini dall’accordo dell’Italia con la Cina, “che del resto non si è ancora formalizzato”. Su tutto ciò Salvini può giocare la carta di un interlocutore, tanto più che Putin sarà in Italia tra pochi giorni: chiarendo però senza ambiguità alcuna che il nostro campo è quello atlantico.

Quando però si parla di atlantismo, a questo concetto dobbiamo associare nuovi significati. Non è più il patto dei decenni della Guerra Fredda, ma non è più neppure quello dei tempi di Berlusconi-Bush jr., in cui gli Usa continuarono la loro vocazione wilsoniana di nazione esportatrice di democrazia: la cosiddetta dottrina neo-con. Nonostante patteggiamenti con il vecchio establishment repubblicano, essa è quanto di più estraneo a Trump. La linea trumpiana, come ha scritto nel suo recentissimo libro Germano Dottori (La Visione di Trump. Obiettivi e strategia della nuova America, Salerno Editrice), è davvero quello del recupero della linea jacksoniana, che solo gli ignoranti chiamano isolazionismo. Si tratta invece di un nazionalismo democratico che rompe con la fallimentare e pericolosa dottrina wilsoniana della nazione missionaria e lavora a tutelare ed espandere il proprio interesse strategico. Per questo chi pensa Trump voglia sostituire l’internazionale liberale del “nuovo ordine mondiale” di Clinton, Bush e Obama, con un’internazionale sovranista rischia di restare deluso. Certo, a Trump, Salvini starà più simpatico della Merkel, per cui l’Islam fa parte della cultura europea, e di un Macron che non cita mai la parola cristiani nei suoi interventi. Gli elementi della identità e della guerra culturale non sono secondari. Ma non sono quelli strategici, per Trump. Predominante è invece il poter contare su alleati sicuri che, grazie a un patto chiaro tra schietti amici di cui l’uno possa fidarsi dell’altro, si sostengano a vicenda. E noi, intendo noi italiani, questo deal dobbiamo sottoscriverlo.

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