Ancora silenzi e omertà sull’origine del China Virus: la denuncia di Li-Meng Yan e le ipotesi del virologo Palù

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“So che devo fare in fretta, prima che mi ammazzino”, dice la virologa cinese a Telecinco. E quasi un anno dopo i primi casi dichiarati, le ipotesi restano tutte aperte, compresa quella di un virus nato in laboratorio…

Nel dramma globale che i competenti chiamano asetticamente “seconda ondata del Covid-19”, la domanda su come si sia davvero originato il coronavirus di Wuhan continua a non interessare né l’opinione pubblica, né i governi, né i dirigenti politici. Eppure si tratta di un interrogativo essenziale, non solo per accertare la catena di responsabilità politiche che ha fatto ammalare il mondo, ma anche perché potrebbe rappresentare un’informazione utile alla ricerca di una soluzione. Se gli scienziati stanno provando a tirare i fili di una matassa che il tempo da solo non scioglierà, non va dimenticato che il terreno su cui si misurano i tecnici è truccato dalla natura autoritaria del regime cinese e dalle complicità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sono proprio questi due fattori che la virologa Li-Meng Yan ha denunciato a più riprese da quando, lo scorso aprile, è stata costretta a lasciare Hong Kong alla volta degli Stati Uniti, dopo le minacce ricevute da ambienti governativi. La sua storia l’abbiamo raccontata in due precedenti articoli (che potete rileggere qui e qui). Giovedì sera Li-Meng Yan ha rilasciato all’emittente televisiva spagnola Telecinco la sua prima intervista europea, in cui ha ribadito la propria versione dei fatti, in poche parole che il virus è stato prodotto artificialmente in laboratorio come arma biologica. Bastano queste affermazioni per capire fino a che punto la ricercatrice sia un personaggio controverso, oggetto di critiche, denigrazioni e censure (Twitter ha eliminato il suo account dopo la pubblicazione del paper incriminato, lei recentemente ne ha aperto un altro). Ma, se dal punto di vista strettamente scientifico le sue deduzioni sono generalmente rigettate (“non apporta dati concreti a supporto”, “ha copiato da altre fonti”, sono le obiezioni più comuni), a Li-Meng Yan va comunque riconosciuto il merito di aver messo l’accento da insider su una serie di punti oscuri che continuano a corrompere la versione politicamente corretta della pandemia, cioè quella che il governo cinese ha fornito e la comunità internazionale ha supinamente accettato. Insomma, l’interesse del personaggio risiede più nelle domande che pone che nelle risposte che fornisce e proprio per questo i tentativi di chiuderle la bocca destano sospetti.

Quasi un anno dopo i primi casi dichiarati, le ipotesi sull’origine del virus restano tutte aperte. Nonostante gli sforzi iniziali per ricondurre l’attenzione generale verso il mercato di Wuhan e le sue specie esotiche, la possibilità che il contagio sia nato tra le bancarelle del pesce per intercessione di un pipistrello volato fino a lì da qualche lontana grotta della provincia cinese è ormai considerata una mera illazione perfino all’interno della stessa comunità scientifica. Non solo le modalità di diffusione appaiono del tutto improbabili, ma i tempi non coincidono e il famoso ospite intermedio, l’animale dentro cui il virus sarebbe stato incubato prima di passare all’uomo, non è mai stato trovato.

Nell’intervista a Telecinco Li-Meng Yan rivela che, mentre si spostava l’attenzione sul mercato del pesce, i medici di Hong Kong e della Cina continentale erano al corrente da tempo di casi di trasmissione della malattia all’interno di gruppi famigliari e della presenza di pazienti infetti negli ospedali della stessa Wuhan. Mentre ufficialmente si cercava il pangolino responsabile della mutazione definitiva, il virus si stava già diffondendo indisturbato tra le persone. Da quando esattamente? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto Giorgio Palù, professore emerito all’Università di Padova ed ex presidente della Società europea di virologia, in una recente intervista rilasciata ad Affari Italiani:

“100.000 genomi sequenziati ci fanno capire da quando il virus è passato da uomo a uomo. Lo sappiamo esattamente. È inconfutabile: il coronavirus circola almeno da settembre 2019. E i cinesi sono stati zitti 4 mesi”.

Settembre 2019, quattro mesi di silenzio. La denuncia di Li-Meng Yan prende corpo. La virologa non crede al salto di specie, improbabile che in natura un virus possa ricombinarsi e riconvertirsi tanto da adattarsi all’uomo in maniera così esatta, trovando un recettore che sembra fatto apposta per farlo attecchire. Anche qui Palù fornisce qualche utile chiave interpretativa:

“L’attuale virus ha trovato un suo serbatoio naturale nella specie umana. Che abbia fatto il salto di specie? Assomiglia molto al virus del pipistrello, però sappiamo anche che quel virus del pipistrello, con buona approssimazione, era artificiale. E questo coronavirus ora non infetta più nessun pipistrello. Se ha fatto il salto doveva essere saltato in un ospite intermedio che non abbiamo mai trovato (…) Sappiamo che questo virus somiglia a quello della Sars all’80 per cento, al 96 per cento al virus che c’era nel pipistrello, che però nessun pipistrello naturale ha mai ospitato, almeno dalle sequenze che sappiamo (…) E comunque per alterare un virus basta veramente poco. Basta coltivarlo tante volte in cellule umane ed ecco che anche un virus del pipistrello può diventare umano”.

È la stessa tesi di Li-Meng Yan, una sequenza sintetica che parte dal coronavirus del pipistrello e arriva all’uomo attraverso una serie di manipolazioni effettuate in laboratorio: la colonna vertebrale del nuovo coronavirus sarebbero lo ZC45 e lo ZXC21, su cui lavoravano centri militari specializzati a Chongqing e Nanjing. Fantascienza? Fantapolitica? Probabilmente. Ma in assenza di una spiegazione coerente il dubbio è lecito, soprattutto quando a Wuhan operano sia il Wuhan Chinese Center for Disease Control and Prevention (WHCDC) che il Wuhan Institute of Virology (WIV), della cui attività sui coronavirus abbiamo già trattato in una precedente puntata dedicata alla possibile fuga accidentale del virus.

Per Li-Meng Yan però non si tratta di un incidente ma di una deliberata volontà da parte del regime cinese di diffondere la malattia per destabilizzare a suo favore gli equilibri internazionali. Un’arma biologica nuova e senza restrizioni, così la definisce in televisione, che presenta tre caratteristiche imprescindibili per assolvere alla sua funzione: il contagio diretto tra umani, un’elevata resistenza alle condizioni medioambientali, la possibilità di trasmissione attraverso pazienti asintomatici. Il fatto che in Cina non si infetti più nessuno, aggiunge, fa pensare che con il veleno sia stato creato anche l’antidoto. Anche su questo interviene Palù:

“Bisognerebbe che chiedessimo perché l’Oms ha detto che i cinesi sono stati bravi. Perché hanno mandato delle commissioni? Quando viene chiesto di avere il virus iniziale il virus non c’è più. Perché sono sparite le sequenze del virus del pipistrello che si coltivavano a Wuhan? Dovremmo anche chiederci perché in Cina il virus è sparito”.

Li-Meng Yan sa di muoversi su sabbie mobili che possono inghiottirla da un momento all’altro. Durante l’intervista ha alle spalle una parete bianca, il suo domicilio è sconosciuto e dietro di sé ha lasciato un marito, i genitori e una casa a Qingdao perquisita più volte dalla polizia. Al di là di ogni considerazione sull’attendibilità delle sue affermazioni viene da chiedersi cosa abbia spinto una ricercatrice di Hong Kong con un lavoro e una carriera assicurati a mettere a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia sfidando un regime in grado di annichilirla. Lo spiega lei stessa, nelle drammatiche battute finali della conversazione:

“Ho sentito che era mio dovere informare il mondo raccontando la verità. So che devo fare in fretta, prima che mi ammazzino”.

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