Aveva ragione Eraclito, per tanti versi così lontano da noi, ma per altri così capace di prevedere e quasi di descrivere plasticamente l’essenza della modernità: un flusso continuo di cose, l’inafferrabilità e la diversità di ogni singolo istante, un divenire incessante, una catena inarrestabile di mutamenti, evoluzioni, trasformazioni. Fu lui a essere definito “l’oscuro”: ma oscuri sembrano piuttosto i nostri tempi, dominati dall’elemento dell’imperscrutabilità, dell’imprevedibilità, della non riconducibilità degli eventi alle categorie tradizionali del Novecento.
Dinanzi a tutto questo, a mio modo di vedere, gli osservatori ragionevoli (a maggior ragione quelli liberali) possono ripartire da tre punti fermi.
Il primo è non perdere mai il contatto con sentimenti e umori di fasce larghissime dell’elettorato, dei cittadini, dell’opinione pubblica, anche quando non se ne condividono alcune decisioni. Non possiamo permetterci il lusso che si sono concesse (a carissimo prezzo per loro) le élites progressiste: processare gli elettori, far loro la morale, giudicarli, pretendere pedagogicamente di dar loro lezioni etico-politiche. In tutto il mondo, la vecchia sinistra e i suoi intellettuali di riferimento hanno pensato di fare così: contro Trump, contro Brexit, contro i populisti europei. Come una casta sacerdotale, come Bramini esenti dall’ipotesi stessa della fallibilità, i vecchi “esperti” hanno creduto che la rabbia degli elettori potesse essere arginata, transennata, ricondotta entro limiti rassicuranti. E hanno sbagliato: trasformando ogni elezione in un’occasione di vendetta contro di loro. Per anni, le preoccupazioni di larghe fette della popolazione rispetto alla stagnazione economica e all’immigrazione sono state negate: e a quelle si è contrapposto il mantra “più Europa, più immigrazione”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
E badate bene: nei prossimi lustri, questi rischi saranno sempre più grandi. La robotizzazione può far scomparire alcune forme di lavoro. Per noi, fiduciosi nel futuro e nella libertà, è forte la convinzione che si creeranno nuove opportunità: ma ci vorrà tempo, e non necessariamente i primi a essere danneggiati saranno anche i primi a essere “risarciti”. E dunque occorre fare i conti con paure, desideri di protezione, momenti di rabbia: tutte condizioni ideali non per una risposta liberale, ma per una reazione di segno statalista. A maggior ragione ci vorrà coraggio e lungimiranza per spiegare che lo stato, la spesa pubblica, il dirigismo, l’interventismo, potranno solo peggiorare la situazione. E che il primo compito di un sistema liberale sarà quello di creare un ambiente favorevole all’intrapresa, a tasse basse e burocrazia ridotta, tale da aprire la strada a qualunque nuova forma di investimento privato o opportunità di sviluppo, senza pretese di “accentramento”, di nuova “politica industriale”, o di previsione “governativa” di quali potranno essere i settori in ascesa.
Il secondo punto fermo è l’atteggiamento da tenere verso i nuovi governanti: no all’indulgenza, ovviamente, ma neanche (anzi: meno che mai!) un atteggiamento di schizzinosa superiorità. Colpisce che osservatori oggi così implacabili verso questo governo siano stati invece accomodanti (per essere gentili) nei lunghi anni anni del renzismo… L’Italia ha resistito per decenni a governi di tutti i tipi, rarissimamente di segno liberale. E dunque resisterà anche a questo esecutivo. Demonizzarlo a prescindere, tifare per il downgrading, fare le majorettes dello spread è veramente surreale: a maggior ragione se a guidare la crociata sono esponenti dei governi degli ultimi anni, inconsapevoli di quanto sia forte il giudizio negativo degli elettori nei loro confronti. I loro attacchi, a ben vedere, costituiscono già ora una polizza di assicurazione per Lega e Cinquestelle. Meglio, molto meglio, offrire sia ai nuovi governanti che ai loro oppositori proposte di limpida impronta liberale, ammonire tutti contro i rischi (vecchi e nuovi) dello statalismo, incoraggiare le eventuali scelte condivisibili, e criticare quelle in direzione sbagliata.
Il terzo è proseguire la semina liberale. C’è da essere scoraggiati, a volte, in questo sfortunato Paese. Nuotare per lustri – o addirittura per decenni – controcorrente, è spossante. Di più: in tempi di tribalismo, di contrapposizioni faziose, di risse in curva tra tifoserie, scegliere di aggrapparsi a idee e contenuti rischia di generare sospetto e distanza: non si è mai “abbastanza vicini” agli uni, non si è mai “abbastanza lontani” dagli altri, e c’è sempre un pretesto per tenere i liberali ai margini, o magari per esibirli (a basso costo) solo in circostanze rituali, inutili e decorative, come quando le nonne tiravano fuori l’argenteria per far buona figura in una certa occasione. Salvo però escludere ferocemente i liberali quando si tratta di decidere.
Occorre tuttavia non perdere energia e direi perfino entusiasmo. Alcuni giganti hanno dovuto sobbarcarsi il peso di salvare (letteralmente) l’eredità liberale e pro mercato in anni e stagioni ben più difficili dell’attuale. La sfida costante è rimanere fedeli ai principi (meno stato, meno centralizzazione, meno pubblico, meno tasse, meno spesa, meno debito, più spazio alla decisione individuale e privata su tutto) ma cercare sempre nuovi attrezzi, nuovi strumenti, nuovi linguaggi. Per evitare di perdere il contatto con pezzi ampi di opinione pubblica che, anche quando non ne appaiono convinti, hanno bisogno di queste chiavi di lettura: ma sta a noi, in modo non noioso, senza moralismi e senza colpevolizzazioni, renderle attuali e fruibili.