Fuga dal laboratorio di Wuhan: tre ricercatori cinesi tra i “pazienti zero”

Oggi abbiamo i nomi, noti agli Usa già dal 2020. Sull’origine del Covid congiura del silenzio lunga tre anni, una delle più grandi menzogne mai raccontate da scienza “ufficiale” e media

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Lenta ma inesorabile, la verità sulla fuga del SARS-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan si fa strada. Negli ultimi tre anni la questione dell’origine artificiale (e accidentale) della pandemia più letale del nostro tempo è passata gradualmente dalla categoria del dubbio, a quella dell’ipotesi, fino a farsi possibilità concreta e infine probabilità.

La certezza forse non l’avremo mai, anche perché la vicenda coinvolge – seppur a diversi livelli di responsabilità – le due principali superpotenze mondiali. Da un parte ovviamente il regime cinese, colpevole di un insabbiamento iniziale costato milioni di vite umane; dall’altra gli Stati Uniti, che hanno cooperato a lungo con Pechino – sotto forma di know-how e finanziamenti – nella ricerca scientifica sul potenziamento di determinati agenti patogeni.

I nomi dei pazienti zero

L’ultimo anello di una catena che porta direttamente ai laboratori cinesi è la conferma da parte di Washington che tra i primi pazienti zero di quella che sarebbe poi diventata un’epidemia globale ci furono proprio tre ricercatori del Wuhan Institute of Virology (WIV), responsabili degli esperimenti di gain-of-function sui coronavirus della famiglia Sars: si chiamano Ben Hu, Yu Ping, e Yan Zhu.

Si tratta di uno sviluppo importante, che conferma le tesi di quanti, fin dal 2020, hanno rifiutato la spiegazione semplicistica dell’origine naturale del virus (il famoso mercato del pesce di Wuhan), partendo dall’elementare considerazione che la presenza dei bio-laboratori nella zona zero era un elemento davvero troppo ingombrante per essere derubricato a semplice coincidenza.

Il report su cui basano queste conclusioni è stato negli ultimi giorni indirettamente avallato dalle rivelazioni del Sunday Times e successivamente corroborato dal Wall Street Journal. Se non è ancora la pistola fumante, poco ci manca, e quella del pangolino rischia di diventare una delle più grandi menzogne mai raccontate.

Segreto di Pulcinella

Se possiamo legittimamente parlare di menzogna e non di doverosa prudenza è perché le informazioni sulla malattia dei tre ricercatori cinesi erano note alle rispettive agenzie di intelligence fin dall’inizio della pandemia.

Inoltre, già nel maggio 2021, lo stesso Wall Street Journal riportava la notizia del loro ricovero in ospedale nel novembre 2019. Un segreto di Pulcinella che non ha impedito alla comunità scientifica ufficiale e ai mainstream media – con poche e lodevoli eccezioni – di avallare la versione ufficiale del Partito Comunista Cinese, uscito indenne e perfino rinforzato da uno scandalo globale che avrebbe dovuto e potuto costringerlo alle corde.

C’è da pensare pertanto che quando, due anni fa, il Dipartimento di Stato insinuava di “aver ragione di credere che alcuni ricercatori del WIV si ammalarono nell’autunno del 2019” fosse in possesso di informazioni ben più precise di quelle che avrebbero potuto alimentare un semplice sospetto. Ma soltanto oggi funzionari del governo statunitense ammettono di esserne sempre stati al corrente.

Se questi dati fossero stati resi noti fin dal maggio 2020 – osserva ancora Alina Chan, co-autrice del libro Viral: The Search for the Origin of Covid-19dubito che scienziati e media avrebbero potuto dedicarsi per tre anni a farneticazioni su procioni e pangolini dentro un mercato”. E invece…

Il silenzio degli “esperti”

Anche nell’Italia dell’emergenza permanente e della sospensione dei diritti costituzionali causa Covid, i pochi che hanno osato argomentare ipotesi diverse sono stati sempre trattati come un gruppo di lunatici complottisti, successivamente assimilati ai detestati no-vax e negazionisti.

Ricordo personalmente la sufficienza con cui un noto sinologo di scuola maoista liquidava su Twitter uno dei miei primi articoli sul tema, che alcuni suoi colleghi avevano osato imprudentemente commentare, conferendogli una dignità che, a suo dire, non meritava. Ricordo i lunghi silenzi di esperti ed esperte in cose asiatiche, che di Cina sapevano (e sanno) tutto ma di Wuhan non volevano sapere nulla.

I nostri approfondimenti

Ad Atlantico Quotidiano invece abbiamo cominciato molto presto ad occuparci dell’origine del virus. Il 6 aprile 2020, in pieno confinamento, raccontavamo dei due laboratori di Wuhan, della denuncia di Botao Xiao e Lei Xiao, delle manovre sospette di alti funzionari dell’esercito cinese nel WIV e delle prime dichiarazioni in controtendenza di qualche isolato biologo americano. La nostra conclusione, già allora, fu la seguente:

Da quel momento non abbiamo più mollato l’osso, come facilmente comprovabile consultando a ritroso le nostre pagine. Pochi giorni dopo infatti tornavamo sui primi sospetti dell’Intelligence americana e sulla tesi – all’epoca del tutto minoritaria – del paziente zero interno al laboratorio.

Poi, a seguire, una serie di approfondimenti sempre più specifici: la cooperazione franco-cinese nel progetto del laboratorio di livello 4, l’occultamento di dati essenziali all’OMS da parte di Pechino, le denunce e la censura social della virologa Li-Meng Yan, i problemi di sicurezza dei laboratori cinesi, i Fauci Files, le relazioni pericolose tra organizzazioni americane e gli istituti di ricerca di Wuhan riguardanti i processi sperimentali sui virus, fino alla ricostruzione completa di tutti gli elementi principali che a tutt’oggi corroborano l’ipotesi della fuga accidentale.

Perché era importante sapere

Dietro all’ostinazione di quegli scienziati, bloggers e giornalisti che hanno speso tempo e risorse alla ricerca di una verità che continua ad essere superficialmente definita alternativa, come se si trattasse di una semplice fantasia naïf e non di una fondamentale esigenza di trasparenza sulle cause di una tragedia globale, c’è una consapevolezza: che se si fosse parlato chiaro fin dall’inizio, se si fosse presa in considerazione quella dell’origine artificiale come un’ipotesi realistica e non come una mera teoria complottista, se si fosse riconosciuto che le condizioni e i metodi di lavoro all’interno dei laboratori cinesi erano in gran parte ignoti alla comunità internazionale, se si fosse aumentata la pressione sui vertici della dittatura cinese invece di prendere per oro colato le dichiarazioni di regime, probabilmente l’approccio alla pandemia e le sue conseguenze sanitarie, politiche e sociali sarebbero cambiati drasticamente.

La decisione collettiva di seguire la narrazione di Pechino ha, al contrario, determinato l’applicazione acritica di un modello di controllo e di repressione simile a quello cinese anche alle nostre società, oltre ad aver completamente sollevato la dirigenza comunista da qualsiasi responsabilità per la diffusione del virus su scala mondiale, l’insabbiamento di informazioni essenziali alla prevenzione dell’epidemia e la repressione interna nei confronti delle poche voci dissenzienti.

L’interesse a far luce sull’accaduto non sembra in ogni caso una priorità dei governi occidentali: non lo è di un’Europa più preoccupata di non disturbare Xi Jinping e compagnia autoritaria che di far valere le proprie credenziali democratiche, ma nemmeno degli Stati Uniti, per cui ufficialmente la Repubblica Popolare è un rivale sistemico.

È di questi giorni la notizia che Biden e il direttore della CIA Avril Haines hanno ignorato la norma bipartisan che imponeva loro di declassificare “tutte le informazioni riguardanti potenziali collegamenti tra il Wuhan Institute of Virology e l’origine del SARS-CoV2”. Per saperne di più, per il momento, bisognerà continuare ad affidarsi ai whistleblowers.

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