Come in un romanzo in cui si cerca fin dall’inizio la soluzione del delitto, gira e rigira, si arriva sempre al punto di partenza: nel nostro caso al laboratorio di virologia di Wuhan dove si sarebbe verificato l’incidente fatale che ha cambiato il corso della storia recente.
Gli esperimenti a Wuhan
Un articolo molto coraggioso del Sunday Times ha, infatti, riacceso i riflettori sull’origine della pandemia. L’atto di accusa è molto duro perché parla esplicitamente di esperimenti in cui sono stati combinati i più letali tra i coronavirus per verificare la possibilità di creare un nuovo virus mutante capace di diffondersi su larga scala.
Tutto questo è avvenuto fino a poco prima che il mondo fosse travolto dal Covid. Tali esperimenti venivano effettuati in collaborazione col Ministero della difesa cinese, pure in previsione di un’eventuale guerra batteriologica. Naturalmente, col coinvolgimento dei vertici militari, tali ricerche non potevano certo essere condivise col resto col mondo.
Per arrivare a queste conclusioni, il Sunday Times ha attinto le informazioni da documenti e dispacci ora desecretati, oltre ad aver consultato esperti dell’Intelligence a stelle e strisce. Insomma, il materiale a disposizione del prestigioso giornale britannico sembra attendibile oltre che qualificato.
La censura social
I sospetti sull’origine artificiale del virus non sono una novità su Atlantico Quotidiano, che se ne è occupato fin dall’inizio, però queste ulteriori rivelazioni possono servire a scardinare il muro di gomma che si è innalzato addirittura in Occidente per proteggere una verità evidentemente scomoda e imbarazzante.
Basti pensare al fatto che, già nel febbraio 2020, quando il New York Post scrisse di una fuga del virus dal laboratorio per un probabile errore, i social media bollarono la notizia come falsa spiegando che era stata effettuata una verifica da parte dei cd. fact-checkers indipendenti per impedire la diffusione di informazioni fuorvianti.
Questa forma di censura impedì agli utenti di accedere al link, limitandone di fatto la divulgazione. Il fatto che si vogliano arginare le fake news oscurando le notizie sgradite o soffocando la libera circolazione delle idee è già di per sé discutibile. Se poi, si tratta di informazioni che hanno pure un certo fondamento, la faccenda diventa ancor più inquietante mostrando come la torsione autoritaria sia stata un fastidioso effetto collaterale dell’emergenza sanitaria seguita alla diffusione del virus partito dalla Cina
L’ulteriore conseguenza nefasta di questa deriva è stata l’esclusione dal circuito mainstream di qualsiasi opinione (pure autorevole) che uscisse dal perimetro pandemicamente corretto o che fosse sprovvista della vidimazione dei famosi fact-checkers. Peraltro, l’interrogativo – conteso tra Giovenale e Platone – sorge spontaneo: chi controlla questi controllori? Quali sono i criteri di scelta? Tutti interrogativi destinati a non trovare una risposta soddisfacente fin quando non si spezza il connubio tra chi seleziona i controllori e i controllori stessi.
Perciò, appare paradossale che queste tesi si rafforzino solo ora, a tre anni di distanza dall’inizio della pandemia. Forse, una maggiore diffusione delle informazioni avrebbe potuto consentire di affrontare il virus con maggiore consapevolezza e minor panico. Eppure sappiamo com’è andata e quali sfasci sono seguiti.
Primi casi nascosti
Allora, quanto pubblicato dal Sunday Times non fa altro che alimentare dubbi più che legittimi sulla strategia con cui l’Occidente ha affrontato l’allarme sanitario. Peraltro, i rapporti tra le autorità occidentali e gli scienziati cinesi si erano interrotti nel 2016 quando questi ultimi dichiararono di aver scoperto un nuovo ceppo di coronavirus all’interno di una miniera, probabilmente trasmesso dagli escrementi di pipistrello con cui gli studiosi erano venuti a contatto. Alcuni di loro si erano poi ammalati e quindi deceduti.
Da quel momento si è verificato un black-out prolungato, fino allo scoppio dell’epidemia nel febbraio 2020. Eppure, il Sunday Times ha elementi fondati per ritenere che gli esperimenti siano proseguiti e che nel novembre 2019 sarebbe stato riscontrato il primo focolaio all’interno del laboratorio testimoniato dalle infezioni che avrebbero colpito i ricercatori di Wuhan. Pure questa informazione sarebbe stata “filtrata” compromettendo di fatto una reazione tempestiva e adeguata all’emergenza.
L’accusa di complottismo
Insomma, quando tutto questo casino è cominciato si rischiava di essere tacciati di cospirazionismo o di essere bannati dai social media sostenendo l’ipotesi dell’incidente e della fuga dal laboratorio. Oggi, pur in assenza di prove inoppugnabili (impossibile da ottenere perdurando l’atteggiamento poco collaborativo – definito oscurantista dal Times – di Pechino), gli elementi a sostegno di questa tesi si moltiplicano.
Nel gennaio del 2021, il Dipartimento di Stato americano aveva già pubblicato una scheda informativa nella quale aveva puntato i riflettori sull’istituto di virologia di Wuhan. Il sospetto delle autorità statunitensi era che i responsabili dell’istituto non avessero condiviso informazioni fondamentali, in particolare quelle sull’identificazione dei primi casi di infezione riscontrati nell’autunno del 2019.
Inoltre, nel febbraio di quest’anno, il direttore dell’FBI, Christopher Wray, ha dichiarato che, molto probabilmente, la pandemia è stata provocata da un incidente occorso nel laboratorio cinese. Ora, al di là del fatto che la circolazione e lo scambio tempestivo dei dati avrebbe magari evitato provvedimenti drastici e liberticidi, resta da chiedersi la ragione per cui – finché si è potuto – si è tentato di silenziare la notizia e di ostacolare la conoscenza di un episodio cruciale per la salute pubblica. Perfino in Occidente dove i metodi cinesi sono, incredibilmente, penetrati senza alcuna resistenza.