Sono in un aereo di una grande compagnia che effettua voli transoceanici. Il servizio è discreto e non mancano i comfort—dal televisorino personale che offre un’ampia scelta di programmi, dal film alla musica, alle continue offerte di cibo e di bevande—per alleviare il fastidio e la noia insopportabile delle quattordici ore di viaggio. Ci sono, è vero, le turbulences ma nel transantlantico dell’aria si sentono meno. Quello che mi colpisce, invece, è un’hostess talmente grassa che sembra passare a stento nei corridoi tra le file di sedili. Lì per lì mi sento in colpa per lo sconcerto: non sarà mica dettato da antichi pregiudizi maschilisti che vogliono le assistenti di volo giovani, graziose, sorridenti? Subito dopo, però, penso che non avrei avuto reazioni diverse vedendo uno steward uscito da un quadro di Fernando Botero e, a questo punto, mi vengono in mente un sospetto inquietante e il ricordo di un episodio risalente a diversi anni fa. Una corte inglese aveva condannato un barista per aver messo un annuncio su un giornale, in cui si offriva un lavoro di cameriera a una donna giovane e di bell’aspetto. Soprattutto quel ‘bell’aspetto’ aveva scatenato le ire delle femministe, scandalizzate dalla strumentalizzazione del corpo della donna. In effetti, il barista era stato incauto: per non perdere tempo nella selezione delle aspiranti all’impiego, ne aveva ridotto la rosa – in realtà, avrebbe potuto benissimo raggiungere il suo scopo fingendo che la sua scelta fosse dettata solo da motivazioni professionali. Del fatto si parlò anche in Italia ma quasi unicamente per esaltare la civiltà britannica che non tollerava discriminazioni estetiche.
Tutto bene? Non per me. La mia natura di bastian contrario, infatti, mi rendeva molto perplesso: da una parte, vedevo un valore iscritto in quell’universalismo etico che dalle Lumières a Kant è diventato ormai il codice occidentale (una donna—o un uomo—ha diritto di essere presa in considerazione indipendentemente dal suo aspetto fisico), ma, dall’altra, vedevo restringersi lo ‘spazio della discrezionalità’, del non contemplato dalle norme giuridiche, al di là del quale vien meno la libertà e tutto diventa oggetto di regolamentazione. Se il ‘come ci si deve comportare’, il ‘come si deve pensare per essere soggetti morali’ invadono tutta l’esistenza quotidiana, le istituzioni – politiche, sociali, culturali – non sono più gli argini entro i quali scorre il fiume della libertà individuale ma diventano la prigione che la tiene sotto controllo. Forse il problema vero è la cancellazione del peccato originale, che, a mio avviso, sta a fondamento del liberalismo: che senso avrebbe, altrimenti, la teoria dei poteri che si controllano a vicenda, se non si credesse nella malvagità umana e nella necessità di neutralizzarla con istituti idonei? In fondo, la civiltà non è la rimozione del male ma la sua sublimazione: la bella dama che il focoso trovatore si porterebbe volentieri a letto si fa l’ispiratrice dell’amor cortese, Teresa T. diventa oggetto platonico della passione infelice di Jacopo Ortis. Più prosaicamente, nel film di Pietro Germi, Signori e signore (1965) a Treviso ci si reca volentieri al bar in cui lavora la bella cassiera Milena Zulian (Virna Lisi) per il piacere di vederla, anche se si rimane, come si dice a Napoli, ‘uocchie chine e mane vacante’ (occhi pieni e mani vuote). D’altra parte, la civetteria, su cui ha scritto pagine straordinarie il grande Georg Simmel, non richiama considerazioni in parte analoghe?
L’hostess lardellata, però, a ben riflettere, è qualcosa di assai più inquietante della barista londinese. Essa, infatti, segna il trionfo finale dell’idea di eguaglianza assoluta. Non solo stanno sullo stesso piano belli e brutti ma ora, diventano irrilevanti pure le differenze tra sani e malati (il grasso eccessivo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una malattia). Qui, insieme alla libertà individuale (di fare ciò che piace, mangiando, ad es., quanto, come e quando si vuole), l’egualitarismo azzera anche la responsabilità sociale. L’idea che quanti non hanno cura del loro corpo non sono nocivi solo a se stessi ma rappresentano un costo per la collettività (in termini di medicine, di assistenza sanitaria etc.) sembra non sfiorare neppure i fondamentalisti dell’egualitarismo. Tra poco sarà vietato, negli annunci di offerte di lavoro, pretendere che le candidate (i candidati) siano, se non magre, almeno snelle e in buona salute. I sacri diritti degli obesi, prima o poi, esigeranno una loro costituzionalizzazione e non mancherà molto che nelle assunzioni (anche quelle fatte dai privati) si debba tener conto delle ‘quote’ e delle proporzioni tra identità diverse (in ogni organizzazione si deve trovare un certo numero di femmine, di maschi, di omosex, di trans, di bulimici, di anoressici, di islamici, di cattolici etc. etc.).
Che tutto questo non spaventi è ciò che più mi meraviglia, per non dire: sconvolge. Vi vedo la lunga marcia del totalitarismo, che, da arma micidiale, che distrugge i corpi, diventa il virus letale, che distrugge le menti: dal Lager e dal Gulag al ‘politicamente corretto’. Scriveva Hannah Arendt, nelle “Origini del totalitarismo”, “L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana (…) E’ in gioco la natura umana in quanto tale”. Certo la “natura umana” non è un dato ontologico ma il precipitato di tradizioni, di costumi, di modi di pensare secolari e tuttavia tradizioni, costumi e modi di pensare sono diventati ormai, come si diceva un tempo, una ‘seconda natura’, modificabile non con operazioni chirurgiche ma con la longue durée. Tra il totalitarismo come regime e il totalitarismo come egemonia del pensiero unico c’è una differenza enorme: la stessa che passa tra il potere e l’influenza, tra il comando che si avvale degli strumenti della violenza fisica e la persuasione che ottiene la conformità con le parole. Al totalitarismo materiale non si sfugge, a quello spirituale sì (nessuno impedisce di fondare partiti o periodici alternativi) sicché ogni assimilazione è assurda. Ciò non toglie, però, che ci sia da aver paura di quanti vedono nell’eguaglianza ‘totalitaria’ l’angelo sterminatore del Male che in millenni di storia non si è finora riusciti a debellare. “Lasciateci un po’ di malizia e di cattiveria”, si sarebbe tentati di dire. Lasciateci rallegrare vedendo una hostess che avrebbe potuto fare la mannequin e voltare lo sguardo da un’altra parte se ci passa accanto una che avrebbe potuto fare la controfigura della soprano Ada Gallotti nel film Racconti d’estate (1958) di Gianni Franciolini, quella che il suo partner erotico Aristarco (Alberto Sordi) chiamava, non affettuosamente, Moby Dick. Il male che abbiamo dentro di noi non potrebbe essere il peperoncino che rende più saporito il minestrone della vita?