Animali, che passione! Le sale di Palazzo Martinengo a Brescia si preparano ad accogliere un evento unico nel suo genere che documenterà, attraverso oltre 80 capolavori, come la rappresentazione degli animali abbia trovato ampia diffusione nell’arte tra XVI e XVIII secolo. Il prossimo anno, dal 19 gennaio al 9 giugno, la mostra “Gli animali nell’arte dal Rinascimento a Ceruti”, curata da Davide Dotti, organizzata dall’Associazione Amici di Palazzo Martinengo, col patrocinio della Provincia di Brescia e del Comune di Brescia, in partnership con Wwf Italy, trasformerà la storica residenza cinquecentesca nel cuore della città in un ideale “zoo artistico”, che consentirà al visitatore di comprendere come l’animale abbia da sempre avuto un ruolo fondamentale nella grande pittura antica. Infatti, i più grandi maestri del Rinascimento, del Barocco e dell’Età dei Lumi, da Raffaello a Caravaggio, da Guercino a Tiepolo fino a Ceruti, hanno spesso dipinto animali sia in rappresentazioni autonome, alla stregua di veri e propri ritratti caratterizzati anche psicologicamente, che in compagnia dell’uomo, soprattutto in occasione di commissioni ufficiali da parte di nobili e aristocratici. Inoltre, traendo ispirazione dai testi biblici e dalla letteratura classica greca e latina, gli artisti hanno licenziato tele nelle quali l’animale è l’assoluto protagonista come, ad esempio, nell’episodio dell’Arca di Noè, oppure comprimario, divenendo attributo iconografico dei santi più venerati, Girolamo con il leone, Giorgio con il drago, Giovanni Battista con l’agnello, o parte essenziale del racconto mitologico. Basti citare, ad esempio, le storie di Diana cacciatrice accompagnata dal suo fedele cane, Ganimede e l’aquila, Leda e il cigno e il ratto di Europa escogitato da Zeus trasformato in toro. Senza dimenticare gli affascinanti personaggi della maga Circe, che aveva il potere di trasformare i suoi nemici in animali, e di Orfeo che, suonando la lira con impareggiabile maestria, incantò gli animali e la natura. Il percorso espositivo sarà suddiviso in dieci sezioni che indagheranno la presenza dell’animale nella pittura a soggetto sacro e mitologico – mettendo in evidenza le simbologie e i significati ad esso connessi, per poi addentrarsi in sale tematiche dedicata a cani, gatti, uccelli, pesci, rettili e animali della fattoria, spesso raffigurati in compagnia dell’uomo. Nell’ultima stanza, invece, saranno protagonisti gli animali esotici, scimmie, pappagalli, dromedari, leoni, tigri, elefanti, struzzi, e fantastici, figli cioè della fervida vena creativa degli artisti. Tra le opere di Guercino, Ceruti, Bachiacca, Grechetto, Campi, Cavalier d’Arpino, Giordano e Duranti che giungeranno a Brescia da musei, pinacoteche e collezioni private italiane ed estere, sono da segnalare quattro capolavori del Pitocchetto che per la prima volta saranno esposti in una mostra pubblica, fra i quali spicca la sorprendente e modernissima coppia di tele raffiguranti Vecchio con carlino e Vecchio con gatto, citata nell’inventario del 1802 della prestigiosa collezione Melzi d’Eril di Milano. Inoltre, verranno presentate alcune tele inedite recuperate dal curatore in collezioni private italiane, tra cui lo splendido “Ritratto di gentiluomo con labrador” del maestro fiorentino Lorenzo Lippi, la “Venere, amore e cagnolino vestito da bambina” del pittore veneziano Pietro Liberi e l’inteso “Ritratto di ragazzino con cane” del genovese Domenico Fiasella. Di Giorgio Duranti, artista bresciano settecentesco specializzato nella pittura a soggetto animalier, il pubblico potrà ammirare cinque meravigliose opere, tra cui il “Ritratto di poiana” di collezione privata, i “Due tarabusi” dell’Accademia Carrara di Bergamo e l’inedito “Nido di gazze ghiandaie” scoperto di recente in una raccolta privata bresciana.
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Nell’immaginario collettivo i depositi sono universi chiusi, sotterranei polverosi, custodi impenetrabili di tesori nascosti e ignorati, spesso associati al mito e al mistero. Come accade a Napoli, per esempio. Nate dalle scelte fatte dagli uomini, identificano un’epoca e, attraverso la selezione delle opere, rendono possibile rintracciare un gusto, una ragione storico artistica, una esigenza conservativa. Nati negli anni cinquanta del secolo scorso, con il progetto di risistemazione del soprintendente Bruno Molajoli, i cinque depositi medi e grandi del Museo di Capodimonte conservano opere di ogni tipo, importanti, con attribuzione incerta, in condizioni conservative precarie. Tra queste, vi sono la collezione di oggetti esotici che il capitano James Cook donò a Ferdinando IV di Borbone e i numerosi serviti da tavola in porcellana di Meissen, di Berlino, della Manifattura Richard Ginori, impossibili da esporre per la loro vastità, che testimoniano la necessità della corte sabauda, a ridosso dell’Unità d’Italia, di dotare le nuove residenze e sedi della corte in Italia di adeguati corredi da tavola. Nel corso degli anni, dai depositi, è stata ricostruita la collezione di oggetti rari di provenienza Farnese attualmente nella Wunderkammer del Museo e la collezione del cardinale Stefano Borgia suddivisa in tre sezioni, il Museo Sacro, l’Arabo Cufico e l’Indico, dopo lunghissimi lavori di ricognizione sull’antico inventario. La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, dal 22 dicembre e fino al 15 maggio del prossimo anno, è il secondo capitolo di una trilogia di esposizioni che sfida il principio costitutivo del museo, proponendolo non più come entità statica e immobile, presunta lezione magistrale, ma come luogo di libertà, di creatività, di potenziale espressivo. In questa mostra saranno esposte centinaia di opere tra dipinti, statue, arazzi, porcellane, armi, e oggetti di arti decorative provenienti unicamente dai cinque depositi di Capodimonte, per raccontarne il ruolo e la storia tra scelte, talvolta impietose, imposte dai dettami del gusto, dalla natura della collezione del museo o dallo stato conservativo delle opere.
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Sarà visibile fino al 30 aprile del prossimo anno, nelle sale del Museo Teatrale alla Scala di Milano, la mostra “La magnifica fabbrica: 240 anni del Teatro alla Scala da Piermarini a Botta” a cura di Fulvio Irace e Pierluigi Panza. La rassegna racconta lo sviluppo di un teatro che dalla sua nascita è stato specchio della città e delle sue trasformazioni: teatro di palchettisti sorto in solida pietra dopo l’incendio del Teatro di Corte, l’edificio del Piermarini ha accolto una società in costante evoluzione, riflettendone lo sviluppo: alle modifiche negli arredi e nelle decorazioni si sono aggiunti interventi strutturali che ne hanno fatto un palcoscenico sempre all’avanguardia anche dal punto di vista tecnico-architettonico. La recente ristrutturazione affidata all’architetto Botta è una nuova testimonianza della volontà del Teatro alla Scala, e più in generale di Milano, di ripensarsi in funzione delle nuove esigenze funzionali, artistiche ma anche urbanistiche. Nei prossimi anni il progetto di Botta sarà completato con l’edificio di via Verdi che garantirà nuovi spazi per le attività artistiche, tecniche e amministrative rendendo ancora più efficiente e coordinata l’attività. Il visitatore è accolto all’ingresso del Museo Teatrale alla Scala da una parete con la presentazione della mostra e un video introduttivo di circa 5 minuti; l’esposizione prosegue al piano superiore, negli spazi della Biblioteca Livia Simoni, con il passaggio dalla sala video in cui è visibile il filmato principale di 17 minuti che, grazie alla collaborazione di Rai Teche e Istituto Luce, presenta rari documenti filmati sulla storia scaligera dalla ricostruzione. A partire dalla stanza attigua inizia il percorso vero e proprio, che procede in ordine cronologico dal 1776, anno dell’incendio del Regio Ducal Teatro, fino al Dopoguerra: concetto ispiratore dell’allestimento è un libro, le cui pagine fuori scala sono graficamente esplose sulle pareti in un paesaggio di grafica ambientale. Il tema del libro torna nella sala centrale in cui prende vita la metafora di un’orchestra: su 30 leggii sono riportate altrettante immagini storiche e attuali della Scala, che si animano a canone, con un focus di volta in volta differente. Al di sopra dei leggii, in dialogo con essi, un’ampia proiezione su uno schermo in forma di grande libro aperto. Un momento di sintesi sull’evoluzione storica del teatro e della piazza antistante dal 1776 a oggi che riunisce in un racconto coinvolgente i diversi elementi presenti in mostra. Infine, nel Ridotto dei Palchi Arturo Toscanini è proposto l’ultimo capitolo della storia, il progetto dell’architetto Mario Botta che nel 2004 ha ridisegnato la funzione dell’edificio e il prossimo ampliamento previsto nel 2022 che arricchirà di una nuova torre il profilo del Teatro. Al centro del Ridotto, la maquette in legno pregiato realizzata da Ivan Kunz riproduce una sezione dell’edificio in scala 1:75, offrendo la possibilità di entrare all’interno della struttura esplorandone da diversi punti di vista le trasformazioni architettoniche e funzionali. È qui che si innesta l’intervento di Italo Lupi, Ico Migliore e Mara Servetto che incrocia l’elemento fisico della maquette e quello digitale della realtà aumentata per offrire un momento di approfondimento interattivo al visitatore che può così addentrarsi in una realtà tridimensionale, esplorando, come un moderno lillipuziano, l’evoluzione del teatro. Il racconto della mostra esplora anche l’integrazione nel tessuto urbano del Teatro alla Scala, e in particolare con l’evoluzione della piazza. Non a caso le Gallerie d’Italia, sede museale di Intesa Sanpaolo, ospitano la maquette del progetto di Botta insieme a due pannelli esplicativi, estensione della mostra al di fuori delle mura scaligere.
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Poco più di due secoli fa Palermo visse un anno da Capitale del Regno: oggi quella storia viene raccontata da una mostra che riunisce reperti, ricongiunge città, salda debiti e ringrazia, nel segno dei Borbone. Una storia che inizia nel 1734, quando Carlo di Borbone muove alla conquista del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia sottraendoli alla dominazione austriaca; e si conclude nel 1860, con lo sbarco dei Mille a Marsala e il governo dittatoriale di Giuseppe Garibaldi che portò la Sicilia all’annessione al neonato Regno d’Italia. Un passo indietro: dopo il Congresso di Vienna, il sovrano Borbone Ferdinando IV (che dopo l’unificazione avrebbe assunto il nome di Ferdinando I) aveva riunito in un unico Stato, il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, grazie alla legge fondamentale del Regno delle Due Sicilie dell’8 dicembre 1816. La capitale del nuovo Regno fu inizialmente Palermo, sede secolare del Parlamento Siciliano, ma già l’anno successivo (1817) la capitale viene spostata a Napoli. Palermo visse quindi soli dodici mesi da “capitale” del Regno, ma tanto bastò a segnarla a vita. Perché il lascito dei Borbone si trova in ordinamenti e leggi a salvaguardia del patrimonio culturale, e in reperti archeologici che giunsero a Palermo su indicazione della casa regnante. Oggi, a distanza di poco più di duecento anni, e a chiusura dell’anno passato da Capitale Italiana della Cultura, l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana e il Dipartimento dei Beni Culturali presentano la mostra “Palermo capitale del Regno. I Borbone e l’archeologia a Palermo, Napoli e Pompei”, organizzata dal Museo archeologico Salinas, che la ospita fino al 31 marzo del prossimo anno, in collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Parco Archeologico di Pompei e CoopCulture. La curatela è del direttore del Salinas, Francesca Spatafora. “L’interessante mostra che riguarda il ruolo del regno borbonico nel campo dell’archeologia, mette in evidenza non solo l’illuminata ed efficace politica che esso ebbe nel campo della tutela del patrimonio culturale, ma anche gli stretti legami tra la città di Palermo e la Campania”, sottolinea Sebastiano Tusa, assessore regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana, “e la presenza delle collezioni del museo Salinas di pregevoli reperti provenienti soprattutto da Pompei e Ercolano, qualificano questo museo come testimonianza storica in un sistema di gestione del patrimonio. La collaborazione tra i musei archeologici di Palermo e Napoli costituisce lo stereotipo attuale di un secolare collegamento, che li ha resi i più importanti musei del Meridione d’Italia”. La mostra occupa tre saloni al primo piano del museo archeologico e racchiude una vasta selezione di opere e reperti donati all’allora Museo di Palermo dai sovrani Borbone Francesco I e Ferdinando II oltre a diverse opere provenienti da scavi finanziati dai reali a Pompei, Ercolano e Torre del Greco, prestate dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dai Parchi Archeologici di Pompei ed Ercolano. Tre, quindi, le sezioni: la prima, dedicata a Pompei, comprende l’intero complesso di opere e materiali provenienti dalla Casa di Sallustio (una parte è ricostruita fedelmente in scala) donati al Museo di Palermo nel 1831 da Ferdinando II; spicca tra questi “Ercole in lotta con il cervo”, gruppo scultoreo in bronzo che abbelliva originariamente l’atrio della domus e che oggi fa parte della collezione del Salinas. Completeranno l’esposizione dedicata alla città vesuviana (sala con tono predominante rosso) alcune sculture, vasellame quotidiano in terracotta e bronzo, decorazioni architettoniche rinvenute a Pompei nel corso degli scavi realizzati dai Borbone o recuperate nei cunicoli di scavo ottocenteschi. Una seconda sezione è dedicata a Ercolano: sono esposte, con il grande plastico del teatro di Ercolano realizzato nel 1808, diverse pitture parietali, oggetti di uso quotidiano, bronzi e sculture provenienti dagli scavi ottocenteschi. Dell’ultima sezione fanno parte opere e pitture rinvenute nella villa di Contrada Sora a Torre del Greco: alcune furono portate a Palermo e donate al museo nel 1831 da Ferdinando II, in fuga da Napoli nel 1798 (e tra queste spicca una splendida copia romana in marmo dell’originale in bronzo del Satiro versante di Prassitele); altre, provenienti da scavi ottocenteschi o dei primi anni Novanta dello scorso secolo, provengono dallo stesso contesto e testimoniano la raffinatezza dell’apparato decorativo della villa. Ad introdurre la mostra è una statua monumentale di Menade rinvenuta a Roma, nelle Terme di Caracalla, tra il 1545 e il 1546, durante gli scavi archeologici promossi da Alessandro Farnese (Papa Paolo III); la scultura, confluita nella collezione di famiglia dei Farnese, fu eredita dai Borbone e trasferita a Napoli con altre importanti opere della stessa raccolta. In seguito, nel 1827, venne trasportata a Palermo al seguito del re, fuggito a causa dell’invasione di Napoli da parte dei Francesi: era destinata ad abbellire il Reale Parco della Favorita.
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Prima mostra dedicata a Lisetta Carmi in uno spazio museale pubblico della capitale, quello del Museo di Roma in Trastevere. L’esposizione si propone di valorizzare l’opera della fotografa attraverso un percorso espositivo scandito da tre nuclei di lavori, concepiti come progetti di pubblicazione su tre temi molto diversi fra loro: la metropolitana parigina, i travestiti e la Sicilia. In mostra saranno presenti anche i lavori più noti, a documentare un percorso fotografico lungo vent’anni, tra i Sessanta e i Settanta, caratterizzato da un’attenta osservazione della realtà, mai occasionale e straordinariamente empatica. Ne sono esempio anche le immagini realizzate nel 1964 nel porto di Genova, che compongono uno dei più significativi reportage del dopoguerra sul tema del lavoro. Sempre legato alla città di Genova, il progetto fotografico da lei intitolato “Erotismo e autoritarismo a Staglieno” mostra la straordinarietà e il fascino del cimitero monumentale. L’indomabile volontà di capire e conoscere spinge la fotografa anche in paesi lontani come Israele, l’America Latina, l’Afghanistan e l’India. Le sue immagini rimangono uno strumento imprescindibile per la conoscenza storica di quei luoghi e di quelle realtà. Saranno esposte anche molte immagini inedite dedicate ai ritratti di artisti e personalità della cultura. Attraverso il suo obiettivo Carmi ha allineato la storia della fotografia con la contemporaneità. Fino al 3 marzo del prossimo anno.