“Picasso. La scultura”, mostra che sarà inaugurata a Roma nella Galleria Borghese il 23 ottobre, indagherà sul concetto di scultura che il museo sta portando avanti da molti anni, scegliendo tra i protagonisti dell’arte di diversi secoli. Pensata come un viaggio attraverso la storia, seguendo il filo cronologico dell’interpretazione plastica delle forme, la mostra presenterà 55 capolavori del grande maestro realizzati dal 1902 al 1961, fotografie di atelier inedite e video che raccontano il contesto in cui le sculture sono nate. Fu durante il suo viaggio a Roma e a Napoli nel 1917, insieme a Jean Cocteau e a Igor Stravinskij, che Pablo Picasso ebbe modo di confrontarsi per la prima volta in situ con la scultura dell’antichità romana, con il Rinascimento ma anche con le pitture murali pompeiane. Una visita alla Galleria Borghese gli permise di studiare le sculture di Bernini, del quale ritrovò le opere anche nella Basilica di San Pietro in Vaticano, che gli svelò inoltre il Michelangelo della Cappella Sistina. Vide i dipinti di Raffaello a Firenze e riconobbe Caravaggio come il maestro della mise en scène. La mostra alla Galleria Borghese terrà conto della sua esperienza di contatto con l’arte italiana per tornare a riflettere su grandi temi legati alla pittura e soprattutto alla scultura dal Rinascimento in avanti. La scultura di Picasso è rimasta per lungo tempo poco conosciuta nonostante l’artista abbia mantenuto un rapporto privilegiato con questa disciplina, parte essenziale del suo lavoro, che ha tuttavia voluto proteggere e tenere segreta. Sebbene il suo mercante, Daniel-Henry Kahnweiler, abbia pubblicato nel dopoguerra un lavoro sulle sue sculture illustrato con fotografie di Brassaï, e le mostre di Roma e Milano del 1953 annoverassero un gran numero di bronzi, il lavoro scolpito di Picasso è stato rivelato in gran parte solo durante le retrospettive che si tennero a Parigi, Londra e New York dal 1966 al 1968. Fino ad allora non erano mai state esposte così tante sculture provenienti dai suoi atelier che coprivano tutto il suo percorso creativo, testimoni di una pratica ininterrotta. Le mostre al Centre Pompidou di Parigi nel 2000, al Museum of Modern Art di New York e al Musée Picasso-Paris nel 2015-2016 riflettono il ruolo fondamentale avuto da Picasso in questo campo della produzione artistica. Tuttavia, la maggior parte dei critici che ha riconosciuto l’influenza dei grandi maestri sul suo lavoro pittorico non ha saputo stimare l’impatto che la conoscenza dell’arte del passato ha avuto sulla sua scultura. In conseguenza di ciò le consonanze visive e concettuali generate dal dialogo che si propone con la mostra alla Galleria Borghese apriranno nuovi campi di riflessione. Picasso è un artista ingegnoso o un “superartigiano”, così come lo intende Platone nella Repubblica, e si appropria del passato per modificarne la percezione. Il rapporto con l’antico è presente in tutta la sua opera, ma l’ambiente mediterraneo in cui si immerge a partire dal 1946 rende il suo lavoro più aperto alla sperimentazione, alla miscelazione di nuovi materiali con pratiche esecutive spesso ancestrali. La sua opera scultorea di questo periodo comprende pietre incise, vasi, animali e figure mitologiche in ceramica. La materia, i motivi, il movimento delle forme o al contrario la loro ieraticità sono altrettante eco delle opere e dei capolavori presenti nella collezione della Galleria Borghese – ad esempio, la scultura Donna con bambino (1961) di Picasso sarà presentata insieme all’Apollo e Dafne di Bernini (1622/1625). Ideata da Anna Coliva, l’esposizione è inserita nel programma internazionale Picasso-Méditerranée, avviato da Laurent Le Bon, direttore del Musée Picasso-Paris, e sarà visibile fino al 3 febbraio del prossimo anno. Curata dalla stessa Coliva e da Diana Widmaier-Picasso, è sostenuta da Fendi, partner istituzionale della Galleria Borghese.
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Dipinti, incisioni, disegni, libri antichi e manoscritti: un’esposizione riporta d’attualità la figura di un protagonista assoluto della storia della medicina e dell’anatomia del Cinquecento. Conteso dalle più importanti corti dell’epoca, fu medico di papi e di principi quali Lorenzo de’ Medici: fino al 16 dicembre, Palazzo dei Pio di Carpi ospita una mostra che rilegge e porta d’attualità l’avventura scientifica e umana di Berengario da Carpi, pseudonimo di Jacopo Barigazzi (Carpi, 1460 circa – Ferrara, 1530), uno dei protagonisti assoluti della medicina del Rinascimento. L’esposizione, curata da Manuela Rossi e Tania Previdi, ideata e prodotta dal Comune di Carpi – Musei di Palazzo dei Pio, con il patrocinio di Alma Mater Studiorum-Università degli studi di Bologna, dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, in collaborazione con l’Università di Padova, il Museo della Medicina di Padova, il Museo civico Archeologico di Bologna, col contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e di Igea Carpi, presenta dipinti, incisioni, disegni, libri antichi e manoscritti, capaci di documentare l’avventura di un genio rinascimentale. Attraverso Berengario, la rassegna racconta un mondo in cui la scienza, l’arte, la politica, le vicende personali e universali si fondevano negli uomini che lo vivevano. Solo nel Rinascimento avrebbe potuto nascere e brillare una figura come Berengario da Carpi, con le sue intuizioni e il suo talento, ma anche con sue le contraddizioni e i suoi lati oscuri. Nel suo campo di specializzazione, Jacopo seppe modernizzare e sviluppare una disciplina, come quella medico-chirurgica, conducendola verso nuovi orizzonti di ricerca. Figlio di un chirurgo, Berengario fu intimo amico di Alberto Pio, signore di Carpi, e per otto anni seguì gli insegnamenti umanistici ed estetici di Aldo Manuzio. Laureatosi a Bologna nel 1489, divenne lettore presso l’Università tra 1502 e 1527 e vi professò la pratica chirurgica perfezionando le tecniche operatorie. Durante gli anni bolognesi, nel 1521 Jacopo pubblicò i Commentaria cum amplissimis additionibus super Anatomia Mundini, il primo di tre volumi fondamentali nella storia dell’anatomia e della medicina, che fece fare alla disciplina un notevole balzo in avanti nella conoscenza e nella rappresentazione del corpo umano e che, per la prima volta in assoluto, lo presentava come mai era stato visto, grazie a straordinarie illustrazioni xilografiche, facendo scoprire, a chiunque sfogliasse i suoi libri, l’immagine di un cuore, la colonna vertebrale, l’apparato riproduttivo femminile, lo scheletro, i muscoli, le vene e il cervello. La grande intuizione di Berengario? Aver compreso il valore della forma visiva, dell’illustrazione, nei libri di anatomia. Si tratta di un valore soprattutto didattico, che va di pari passo a un approccio diverso allo studio della medicina e dell’anatomia: non è più solo la rilettura degli antichi, ma una conoscenza diretta che passa attraverso la pratica delle dissezioni e che deve essere “tradotta”, per gli studenti in primis, ma anche per gli artisti, come ebbe modo di affermare lo stesso Berengario. Tra il 1522 e il 1523, Jacopo pubblica le Isagoge, due edizioni di una breve silloge dei Commentaria che ebbero immediatamente un grande successo e furono replicate, ancora vivente Berengario e fino a pieno Settecento, in decine di successive tirature.
Giunto all’apice della fama, Berengario venne conteso dalle più importanti corti dell’epoca, al punto di diventare chirurgo di tre papi e di curare, su invito di papa Clemente VII, Giovanni dalle Bande Nere ferito in battaglia a una gamba o Lorenzo de’ Medici colpito alla testa da una pallottola di archibugio. Tra le sue ricette più conosciute, un unguento prodigioso che, dopo l’aggiunta di mercurio, divenne un efficace antisifilide, ma dagli enormi e letali effetti collaterali. Il percorso espositivo, suddiviso in tre sezioni, prende avvio con l’analisi del contesto culturale e accademico che tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento caratterizza il polo bolognese e quello veneto, in particolare di Padova. La riscoperta dei testi classici antichi contraddistingue questo periodo e i dottori che si alternano nelle cattedre ripropongono e commentano, a volte traducendo direttamente, testi fondamentali per lo studio dell’arte della medicina, fino ad allora sconosciuti ai più. In questo àmbito si colloca la figura di Berengario che inizia a proporre correzioni di alcuni errori anatomici riscontrati nelle descrizioni fornite da Galeno grazie alle autopsie e dissezioni da lui effettuate su corpi umani. Vengono qui presentati volumi a stampa come il Fasciculus medicinae del medico tedesco Johannes de Khetam, il De humanis corporis fabrica dell’anatomista fiammingo Andrea Vesalio, il Canon medicinae Avicennae, oltre a disegni, xilografie e strumenti chirurgici dell’epoca. Introdotta dal ritratto di Jacopo, eseguito da un anonimo pittore emiliano, la mostra prosegue con la parte, vero fulcro della rassegna, in cui attraverso documenti, volumi, opere d’arte si ricostruisce la figura di Berengario da Carpi nella sua complessità, facendo emergere un personaggio che ben rappresenta l’uomo del Rinascimento italiano. Il suo legame con la corte dei Pio a Carpi lo porta a frequentare e confrontarsi con personaggi dotti e illuminati come Aldo Manuzio, precettore di Alberto III Pio. Lo studio del greco e dei testi classici antichi (nella biblioteca del Pio erano confluiti i volumi della biblioteca di Giorgio Valla da lui acquistati, tra cui numerosi manoscritti di medicina di Galeno e Ippocrate) va di pari passo con l’interesse scientifico di Berengario, cresciuto in una famiglia di medici in cui ci si tramandava il segreto di efficaci unguenti e cerotti, così come il suo interesse per l’arte e la storia antica, grazie al quale saprà cogliere la bellezza e il valore del frammento di marmo del busto di Nerone di epoca romana ritrovato nel sottosuolo di Bologna, qui riproposto con un’installazione olografica, realizzata dal Museo civico archeologico di Bologna e dal dipartimento di ingegneria dell’Università di Bologna, che ripropone il modo che Berengario aveva utilizzato per esporlo nella sua casa, o del San Giovannino nel deserto dipinto da Raffaello, a lui appartenuto in copia, ed esposto nella versione xilografica, incisa da Ugo da Carpi. In questa sezione, si potranno ammirare alcuni preziosi manoscritti di argomento medico del XV secolo, provenienti dalla biblioteca di Alberto Pio, i volumi a stampa di Berengario, e rari referti medici firmati dallo stesso medico carpigiano. La rassegna si chiude idealmente con una serie di disegni, grafiche e dipinti che hanno come soggetto principale scheletri, corpi e teste umane, di autori quali Leonardo da Vinci, Antonio Pollaiolo, Domenico Campagnola, Giovanni Jacopo Caraglio, e molti altri. Le illustrazioni dei volumi di Berengario tradiscono una mano di artista: in esse si riconoscono modelli iconografici che rimandano, in alcuni casi, alla scultura antica, ma più spesso a iconografie in cui l’antico viene ripreso e adattato al gusto che gli artisti di area emiliana e lombarda, ma anche centro-italica, impongono in quegli anni. È il caso degli scheletri a figura intera, che ricordano i tipi raffigurati nelle danze macabre dalla seconda metà del XV secolo, dove s’incontra anche quello dello “scorticato”, inciso ad esempio da Marco Dente nei primissimi anni del Cinquecento in forme e posizione analoghe alla figura dei Commentaria e presente in mostra.
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Nella capitale il Palazzo delle Esposizioni presenta fino al 14 ottobre la mostra “Sergio Ceccotti. Il romanzo della pittura 1958-2018”, promossa da Roma Capitale-Assessorato alla Crescita culturale e curata da Cesare Biasini Selvaggi. Una quarantina di opere, allestite nello Spazio Fontana seguendo un ordine cronologico, ripercorrono il personale “romanzo della pittura” lungo sessant’anni di attività, dal 1958 al 2018, di Sergio Ceccotti, fortunato antesignano della figurazione italiana contemporanea, lungimirante erede della metafisica dechirichiana e del realismo magico. Dai primi dipinti della fine degli anni Cinquanta dalle suggestioni neocubiste (Il giradischi, 1958; Ricordo d’Olanda, 1959) a quelli della prima metà degli anni Sessanta nei quali riecheggia potente l’espressionismo tedesco (Al bar II, 1962), la mostra prosegue con gli intensi lavori dei decenni successivi (Avventura & mistero, 1966; Un delitto, 1967; Combattimento di Tancredi e Clorinda, 1980; Sonata, 1998) immersi in quello che potrebbe essere chiamato realismo ceccottiano, una visione pittorica colta, raffinata e originale che distilla spunti della storia dell’arte, che impiega artifici retorici del cinema alla Hitchcock, del fumetto (come Diabolik delle sorelle Giussani), della fotografia, del fotoromanzo e della letteratura di genere, dal racconto poliziesco alla Hammett o alla Chandler, alla narrativa di autori contemporanei come Georges Perec, Patrick Modiano, Antonio Tabucchi o Paul Auster. Nei dipinti di Ceccotti si rinnovano anche gli spunti dei rebus o meglio, dei disegni dell’illustratrice della Settimana Enigmistica Maria Ghezzi. “Il mio interesse per questi disegni – ha dichiarato l’artista romano – non nasceva da una grande passione per i rebus, anche se mi diverte risolverli, ma dal fascino che quelle scene emanavano, un fascino che tenterò di spiegare. Gli accostamenti di oggetti incongrui, ingrediente principale di ogni rebus, non producono qui un effetto disturbante di tipo surrealista, ma sono tranquillamente assorbiti dalla scena generale, come se in quel mondo fosse naturale che un ragazzo lotti con un serpente tra l’indifferenza di altri personaggi che contemplano le barche sul fiume, mentre su una pietra in primo piano una teiera e una tazza attendono, accanto a due grossi coltelli”. Ceccotti rivela sottili malvagità celate nelle sue, apparentemente tranquille, vedute di città, nei suoi paesaggi urbani (Notturno, rio dei Mendicanti, 1990; Hiver à Montmartre, 1991; Estate a piazzale Flaminio, 2016). Questo repertorio iconografico rappresenta il “mandante” di alcuni particolari “raccapriccianti” della figurazione ceccottiana, in cui inquietanti enigmi si nascondono al di là di porte e finestre, scale e corridoi di asettici appartamenti borghesi (Un après-midi parisien, 2017) o di modeste camere d’albergo (La robe verte, 2008). Spazi quasi sempre anonimi, ma al tempo stesso altamente simbolici che, per la presenza di indizi talvolta allarmanti, sembrano precedere o seguire di un attimo un dramma che, con sapiente regia, è precluso allo sguardo dello spettatore che può solo immaginarlo. La mostra è accompagnata da un catalogo, edito per i tipi di Carlo Cambi editore, che include il saggio del curatore, le tavole e le schede delle opere esposte, un’antologia di testi critici dedicati all’artista, un’estesa cronologia e una sezione di apparati espositivo-bibliografici.