Chi ha la pazienza di leggerci conosce la nostra simpatia antica per Boris Johnson, l’ex ministro degli esteri inglese. Con rare eccezioni (mi piace citare la bellissima newsletter Fumo di Londra di Gabriele Carrer, ovviamente i lavori di Federico Punzi, le analisi de La Verità, di Italia Oggi e del suo direttore Magnaschi, e di pochissime altre testate o voci individuali, da Maria Giovanna Maglie a Marco Gervasoni), i media italiani lo presentano da anni come un fracassone, un casinista, uno sfasciacarrozze. L’analisi che gli dedicano è più tricologica che politica: i capelli in disordine, l’aria da rugbysta, le gaffes vere o presunte.
La verità è che – trumpianamente – Johnson li spiazza. Molti anni fa, da inviato del Telegraph (dove ora ha ripreso a scrivere), colse tra i primi le assurdità della macchina di Bruxelles, e le descrisse in corrispondenze leggendarie. Poi diresse lo Spectator. Poi vinse a Londra, divenne sindaco, in una città spesso feudo dei laburisti. In tempi più recenti, è stato uno dei campioni della campagna Brexit: e naturalmente, per ciò solo, è stato descritto come un urlatore e un populista.
Certo, lui gioca e ci gioca, marcia e ci marcia. Sa che in questi tempi una linea liberalconservatrice non può essere presentata in termini freddamente convegnistici o salottieri, e ha anche le caratteristiche “carismatiche” e “scenografiche” per farlo.
Ma occhio a sottovalutarlo. E’ uomo di cultura vasta e profonda, oltre che un giornalista e saggista coi fiocchi. Qui abbiamo recensito la sua spettacolare biografia di Winston Churchill e un volume altrettanto riuscito sull’impero romano (contrapposto all’aborto dell’Ue).
Da un mese, come sapete, ha rotto con Theresa May su Brexit, lasciando il governo. Ovviamente da un lato ci sono le sue ambizioni di guida dei conservatori, ma dall’altro un ragionamento lucido e geometrico: troppa parte della classe dirigente inglese (May inclusa) sta vivendo Brexit in termini di riduzione del danno, invece che come opportunità da cogliere.
Dopo lo spettacolare risultato del referendum del 2016, a maggior ragione sarebbe servito un approccio thatcheriano: taglio radicale di tasse e burocrazia, allineamento transatlantico con Trump, linea aggressiva verso l’Ue (anche ai limiti dell’uscita no-deal, cioè senza accordo con Bruxelles). E invece la May (una remainer, non dimentichiamolo) ha mostrato il suo tratto culturale di fondo: più da cristiano-democratica continentale che da rivoluzionaria conservatrice thatcheriana, più da figlia del vicario fiduciosa nello stato e nella protezione pubblica che da strenua sostenitrice dell’azione individuale e privata (questa sì meritevole di tutela: ma nei confronti dello stato!).
Questa settimana Boris è andato alla guerra anche sul terreno culturale, contestando il burqa, e facendolo con una nuance intelligente: per un verso, dichiarandosi contrario a divieti legali (è un conservatore che crede nella libertà, anche quella di fare le cose peggiori), ma per altro verso rivendicando tutto intero il suo diritto a definire quel velo una forma di oppressione contro le donne, ridotte – ha detto – a “cassette della posta” o alla condizione di “rapinatrici” con il volto coperto.
Apriti cielo! A partire dalla May, da giorni è tutto un fiorire di personalità che gli chiedono di scusarsi. Ci auguriamo che, come don Giovanni, Boris si opponga: “No, no ch’io non mi pento, vanne lontan da me”. La battaglia contro il politicamente corretto che ha finalmente rilanciato ha un valore profondo: anche più importante della corsa alla leadership Tory, per la quale (se deciderà davvero di intraprenderla) merita peraltro ogni augurio e sostegno.