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Il “302” dell’FBI su Mifsud: un interrogatorio fin troppo breve e superficiale per un sospetto agente russo

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È finalmente uscito fuori, due giorni fa, il “302” di Joseph Mifsud, il rapporto redatto dall’FBI sull’interrogatorio del professore maltese tenuto a Washington nel febbraio 2017. Due paginette che confermano tutte le contraddizioni che in questi mesi abbiamo evidenziato su Atlantico Quotidiano circa la condotta del team Mueller e l’intero impianto dell’inchiesta Russiagate.

Ci siamo sempre domandati, in particolare, perché, ritenendolo un agente russo o comunque un personaggio con contatti di alto livello in Russia, e credendo che avesse effettivamente riferito al consigliere della Campagna Trump George Papadopoulos che i russi erano in possesso di materiale “dirt” sulla candidata Clinton, l’FBI e il procuratore speciale Mueller non abbiano arrestato, né incriminato, né mai più cercato di rintracciare Mifsud dopo l’interrogatorio del febbraio 2017. Ora, dal 302, emerge anche che quell’unico interrogatorio non fu nemmeno così approfondito.

Il professore maltese, secondo il rapporto, ha negato agli agenti dell’FBI di aver saputo in anticipo alcunché di email del Comitato democratico in possesso dei russi e, quindi, di aver fatto proposte o fornito informazioni a Papadopoulos.

Nell’interrogatorio Mifsud ha confermato il primo incontro con Papadopoulos a Roma, presso la Link Campus University, e anche un secondo incontro, a Londra, ma ha omesso i due incontri successivi.

Un interrogatorio molto breve e superficiale per uno sospettato di essere un agente russo incaricato di entrare in contatto con la Campagna Trump per aiutarla a vincere le elezioni.

Mifsud stesso raccontò agli agenti di aver messo in contatto, via email, Papadopoulos con Ivan Timofeev del Russian International Affairs Council, legato al Ministero degli esteri russo. Eppure, non risulta alcuna domanda degli agenti sui suoi rapporti con Timofeev o con altre personalità del (o vicine al) governo russo. Ma proprio a partire dal suo rapporto con Timofeev è stata costruita la narrazione, dei media liberal e del team Mueller, secondo cui sarebbe un agente russo.

Insomma, non c’è alcuna indicazione, nell’interrogatorio del febbraio 2017, che possa suggerire che l’FBI ritenesse Mifsud un agente russo, contrariamente a come sarebbe stato presentato durante tutta l’inchiesta Russiagate e nello stesso rapporto finale del procuratore speciale Mueller.

L’FBI ha avuto per le mani il personaggio chiave, dai cui incontri con Papadopoulos era partita l’inchiesta Crossfire Hurricane, e lo ha lasciato andare dopo un breve interrogatorio senza nemmeno chiedergli dei suoi legami con la Russia. Nel suo rapporto, Mueller sostiene che le false dichiarazioni di Papadopoulos all’FBI abbiano impedito agli agenti di interrogare in modo efficace Mifsud nel febbraio 2017, e in particolare di incalzarlo sulle sue “affermazioni inesatte”. Eppure, alla prova dei fatti nessuna delle false dichiarazioni contestate a Papadopoulos avrebbe potuto intralciare le indagini e tanto meno compromettere l’interrogatorio. Aveva sì dichiarato che all’epoca degli incontri con Mifsud non faceva ancora parte della Campagna Trump, ma l’FBI sapeva già che era falso, come dimostra la richiesta di sorveglianza FISA presentata nell’ottobre 2016. È indifferente anche che Papadopoulos abbia sminuito l’importanza delle sue comunicazioni con Mifsud e dei contatti del professore in Russia, dal momento che alla base dell’indagine, fin dalla sua apertura, c’era la rivelazione che un agente russo avesse riferito a Papadopoulos del materiale “dirt” sulla Clinton in mani russe. Quindi, i contatti russi di Mifsud avrebbero dovuto essere comunque al centro dell’interrogatorio di febbraio.

Inoltre, quando Mifsud negò agli agenti di aver rivelato alcunché, l’FBI sapeva già che Papadopoulos aveva invece confermato la circostanza. E quando negò ulteriori incontri, l’FBI sapeva già che ce ne furono altri due nell’aprile 2016 dopo i due ammessi dal professore. Inesattezze che gli agenti avrebbero potuto contestare a Mifsud immediatamente nell’interrogatorio di febbraio.

Ma nelle due pagine del 302 di Mifsud troviamo anche la conferma del ruolo di un’altra figura a cui il team Mueller sembra non essersi interessato. Nel loro secondo incontro, il primo a Londra, il professore arriva accompagnato da una ragazza di bella presenza, tale Olga Polonskaya, studentessa del master in intelligence della Link Campus, presentata a Papadopoulos come legata a Putin o addirittura sua “nipote”. Agli agenti Mifsud dirà di non credere che fosse parente di Putin, ma qualcuno a Papadopoulos deve averglielo fatto credere, perché come risulta all’FBI, il giorno stesso dell’incontro si precipita a cercare conferma su Google. Mifsud suggerirà agli agenti anche che i due potrebbero aver avuto una relazione, ma nel suo rapporto Mueller scrive che dal tono delle email un rapporto personale sembrava esserci piuttosto tra la ragazza e il professore. Mifsud ha inoltre omesso di dire agli agenti di aver lui stesso preparato la bozza o editato una email della Polonskaya indirizzata a Papadopoulos. Sì trattò dunque di un tentativo di adescamento sessuale? Resta il fatto che anche della Polonskaya si sono perse le tracce: altre domande da rivolgere alla Link e alla Procura di Roma…

Non solo. Dai rapporti “302” sugli interrogatori di Papadopoulos emerge che l’ex consulente della Campagna Trump espresse in realtà la sua disponibilità ad aiutare attivamente l’FBI a localizzare Mifsud. Nell’interrogatorio del primo febbraio, per esempio, disse agli agenti che il professore “si era di recente messo in contatto con lui” e gli aveva “indicato che forse si sarebbe recato a Washington a febbraio”, come sappiamo per una conferenza patrocinata dal Dipartimento di Stato (!). Proprio l’occasione in cui l’FBI riuscì a interrogarlo. Ma la disponibilità di Papadopoulos fu omessa dagli atti depositati dal team Mueller a suo carico.

In ogni caso, il professore farà perdere le sue tracce solo a novembre 2017, continuando fino a quel momento a condurre la sua solita vita pubblica fatta di relazioni e convegni, anche all’estero, senza sentirsi in alcun modo braccato o in pericolo (pochi mesi dopo l’interrogatorio a Washington, prese parte ad una conferenza internazionale in Arabia Saudita con ex funzionari CIA e MI6). Quindi, l’FBI e il team Mueller hanno avuto 9 mesi per rintracciarlo e approfondire. Ma non hanno ritenuto di farlo.

Nel suo rapporto, Mueller non afferma esplicitamente che Mifsud fosse un agente russo, come invece sostenuto dall’ex direttore dell’FBI Comey al Washington Post, ma vi allude, evidenziando i suoi contatti con figure del governo e dello spionaggio russo. Il procuratore omette completamente, invece, i rapporti ben più stretti e intensi di Mifsud con ambienti accademici, diplomatici, politici e di intelligence occidentali – personale militare Nato, ex funzionari di intelligence americani e britannici, diplomatici, ministri e politici occidentali, l’ex vicepresidente del Parlamento europeo Pittella, che ebbe a definirlo un “caro amico”. Se davvero Mifsud lavorava per i russi, un incredibile numero di personalità e istituzioni diplomatiche, politiche e di sicurezza occidentali con le quali era entrato in contatto potevano essere state seriamente compromesse, una gigantesca falla nella sicurezza degli Stati Uniti e dei governi alleati. Eppure, questa ipotesi non ha mai destato allarme, non è mai stato trattato come potenziale minaccia, né dall’FBI né da altre agenzie.

Nonostante durante la sua inchiesta il procuratore speciale abbia incriminato molte persone, anche solo per aver mentito all’FBI, e nonostante nel rapporto affermi che anche Mifsud avesse mentito sui suoi incontri con Papadopoulos, non ha mai incriminato né cercato di rintracciare il professore maltese per interrogarlo di nuovo. A precisa domanda durante un’audizione al Congresso, Mueller si è trincerato dietro un “non posso rispondere su questo”. E ancora: se le conversazioni tra Papadopoulos e Mifsud, riferite per via diplomatica dall’ambasciatore australiano Downer il 26 luglio 2016, sono davvero all’origine dell’inchiesta, come da sempre sostenuto dall’FBI, prese talmente sul serio da motivare, da sole, l’apertura di una indagine di controintelligence e l’adozione di misure di sorveglianza nei confronti della campagna di un candidato alla presidenza, perché ci sono voluti sei mesi per interrogare i due?

Come ha osservato ieri Chris Blackburn su Twitter, c’è un modo molto semplice per verificare la buona fede dell’inchiesta: trovare quando (e se) è stato chiesto alle autorità britanniche e italiane di indagare su Mifsud, il LCILP (London Centre of International Law Practice) e la Link Campus, organizzazioni di cui faceva parte.

Da un altro documento chiave di recente declassificato, la “Comunicazione Elettronica” (EC) dell’FBI con la quale il 31 luglio 2016 veniva annunciata internamente l’indagine di controintelligence denominata “Crossfire Hurricane”, emerge tra l’altro l’estrema vaghezza dell’informazione da cui tutto sarebbe scaturito.

Nello stesso promemoria che l’ambasciatore Downer aveva girato alla sede diplomatica Usa di Londra, in cui si riferiva della conversazione avuta con Papadopoulos, si sottolineava che “non era chiaro se lui o i russi si stavano riferendo a materiale acquisito pubblicamente o tramite altri mezzi”, “non era chiaro anche come la squadra Trump avesse reagito all’offerta” e, in ogni caso, “la reazione della squadra Trump, in fin dei conti, potrebbe avere scarsa rilevanza su ciò che la Russia decide di fare, con o senza la cooperazione di Trump”.

Downer in sostanza riferisce una “suggestione” sentita più di due mesi prima in un bar da Papadopoulos (o addirittura riferitagli da un’altra funzionaria australiana, Erika Thompson). Suggestione che Papadopoulos aveva appreso dal professor Mifsud, il quale a sua volta l’aveva appresa a Mosca da funzionari russi.

Ma non c’erano elementi, nell’informativa di Downer, per dedurre che si trattasse proprio delle email hackerate al Comitato nazionale democratico. Con gli australiani Papadopoulos non ha mai parlato di “email”. Né Downer né Papadopoulos hanno mai affermato che si sia parlato di “email”. Non risulta nel rapporto Mueller e, ora lo sappiamo, nemmeno nel promemoria passato da Downer e citato nella EC. Da notare che il diplomatico australiano ricorda le affermazioni di Papadopoulos nell’incontro di maggio solo dopo oltre due mesi, il 26 luglio. Quattro giorni prima WikiLeaks aveva cominciato a diffondere le email hackerate al DNC. Solo allora Downer se ne ricorda, forse ricollegandole a quel fatto, pur avendole fino ad allora giudicate insignificanti. Ad insospettire, anche il fatto che l’agente Strzok abbia prima impostato e poi approvato da solo la sua indagine, inizialmente facendo in modo che il memo potesse essere visto solo dai partecipanti al caso e non da altri ufficiali dell’FBI.

Una falsa premessa dunque o, peggio, un pretesto fabbricato per dare copertura di indagine ufficiale ad un’attività di sorveglianza sulla Campagna Trump che era già in corso.

Dunque, la domanda che riguarda Mifsud resta centrale: chi è e per conto di chi agiva quando entrò in contatto in modo tutt’altro che casuale con Papadopoulos? Se fosse un asset di intelligence occidentali, allora questo proverebbe che Papadopoulos è stato adescato e incastrato già nella primavera del 2016, molto prima dell’apertura di Crossfire Hurricane, e accrescerebbe i sospetti che l’amministrazione Obama abbia aperto l’indagine sulla base di prove fabbricate, al solo scopo di spiare la Campagna Trump.

Ieri, su Twitter, Papadopoulos ha ricordato che è “dalle informazioni su Mifsud date dai funzionari italiani che è partita l’inchiesta penale di Durham. L’Italia è con noi”.