Giovedì scorso, in prima serata, il Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano mi ha quasi riconciliato con l’informazione televisiva. Mi è capitato, qualche volta, di vedere Otto e mezzo (La7) di Lilli Gruber o Visionari di Corrado Augias (Rai3) e mi sono profondamente vergognato di una political culture che non è arrivata neppure allo stadio delle “due campane” e, quando applica il principio dell’audiatur et altera pars, lo fa mettendo l’ospite sul banco degli imputati. Mi sono chiesto quale reazione avrei se, in un dibattito televisivo, vedessi sostenute come verità indiscutibili le tesi di Renzo De Felice sul fascismo – e parlo di uno dei miei Maestri più cari – e fatto a pezzi lo storico di parte avversa incautamente invitato: il mio sconcerto da liberale non sarebbe stato molto diverso. Tempo fa, invitato a un convegno sulla democrazia, probabilmente come alibi pluralista, dissi agli organizzatori che sarei andato solo se l’invito fosse stato esteso anche a Domenico Losurdo, l’ultimo marx-stalinista italiano, che tanti saggi aveva scritto sulla (contro la) democrazia liberale – nessuno condivisibile ma tutti frutto di ricerche storiche accurate, sicché anche nel dissenso si doveva essergli grati per tutto quello che vi s’imparava. Uno come me che fonda un’associazione culturale dedicata a Isaiah Berlin non avrebbe potuto comportarsi diversamente.
Avrei quasi abbracciato Gennaro Sangiuliano (non siamo amici: l’ho incontrato una sola volta a casa di Marcello Veneziani) per il servizio sul Salone del Libro di Torino. In esso venivano ricordati i roghi dei libri accesi dalle camicie brune – e prima ancora dall’Inquisizione – e l’ospitalità concessa, a Torino, nel 1994 a Renato Curcio, che presentava il suo libro “La mappa perduta” e, nel 2006, a Adriana Faranda, autrice de “Il volo della farfalla”: sui quotidiani se ne parlò per qualche tempo – e con qualche comprensibile imbarazzo – ma non ci fu nessuna tempesta mediatica. Contro la presenza della postina delle BR, invero, protestarono i parenti delle vittime (Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ferdinando Imposimato), ma la lettera da loro indirizzata al presidente della Repubblica non mi pare che abbia avuto qualche seguito: Curcio e la Faranda, in fondo, erano “compagni che sbagliavano” e, come riconobbe Rossana Rossanda, appartenevano all’”album di famiglia” (v. il famoso articolo su il Manifesto del 28 marzo 1978 “Il discorso sulla dc”).
La rebelion de las masas (antifasciste, ma poi saranno davvero “masse”?) c’è stata invece contro Francesco Polacchi e la sua casa editrice Altaforte, per aver portato a Torino il libro dell’intervista di Chiara Giannini al vicepresidente del Consiglio, “Io sono Matteo Salvini. Intervista allo specchio” – prefazione del noto fascistone Maurizio Belpietro. È intollerabile – è insorto il team del pensiero unico – che si possa dare ospitalità a un editore che ha dichiarato la sua ammirazione per il fascismo e la sua insofferenza per l’antifascismo. Bene hanno fatto quindi, quegli scrittori che hanno disertato la manifestazione. “La scrittura – ha sentenziato uno del giro – è politica per definizione, e rifiutarsi di prendere parte in prima persona a un evento che comunica (anche) valori politici aberranti è una scelta legittima, e per molti versi anche virtuosa”. L’articolista è in ottima compagnia: che la cultura sia politica per definizione lo pensavano anche Robespierre, il Dr. Goebbels, Stalin, Gramsci, Pol Pot, Castro, Mao etc. Si vorrebbe capire, tuttavia, quale sorte vada riservata a quanti si ostinano a ritenere: a) che la conoscenza deve essere wertfrei (avalutativa), come sosteneva Max Weber; b) che a fare la grandezza di un autore non sono le sue idee politiche (Marx poneva il monarchico legittimista Balzac accanto a Shakespeare), ma la capacità di guardare in profondità nei sotterranei del proprio tempo; c) che un editore è un imprenditore come un altro: lo si giudica dai libri che pubblica non dalle sue opinioni, per quanto discutibili.
Polacchi non ha recato a Torino un aggiornamento di “Mein Kampf”, ad opera di CasaPound, ma il libro di un ministro della Repubblica. Guido Vitiello – che sta diventando il Maurizio Crozza del Foglio e che, come il comico di Borgoratti, diverte solo chi condivide i suoi pregiudizi ideologici – scrive che Salvini è capo di un “partito di estrema destra”, che civetta “con i balordi dell’estrema destra locale”, si allea “pubblicamente con i balordi dell’estrema destra internazionale”, promuove “una cultura politica di estrema destra”, si ispira “a dottrine economiche di estrema destra”, vagheggia “assetti istituzionali di estrema destra”, tratta “i diritti civili come li tratta l’estrema destra”, costringe “la povera Meloni ad andar fuori di melone pur di trovare ogni giorno un modo per scavalcarlo ancora più a destra fino all’ultima Thule dell’estrema destra”. Sarà pur vero, ma c’è un piccolo particolare: che il “Truce” è stato eletto da quasi il 20 per cento degli italiani e che pubblicare un’intervista a un membro del governo non si vede quale vulnus rappresenti per la Costituzione (democratica prima che antifascista).
D’altra parte, perché nessun’altra grande casa editrice ha proposto a Salvini un libro-intervista? Nel 1999 Ar di Padova (leggi: Franco Freda), pubblicò un libro coraggioso di Antonio Venier, “Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione”. Venier aveva esordito col saggio “Una politica aeronautica per l’Italia” (1988), edito dalla rispettabile Franco Angeli di Milano, ma per il secondo non aveva trovato uno straccio di editore, anche se a prefarlo era una figura politica non proprio di secondo piano, Bettino Craxi. Cosa avrebbe dovuto fare? Rinunciare a dire la sua sulla svendita ciampaiola del paese, sulla “sottomissione al Trattato di Maastricht”, sulle “grandi ‘privatizzazioni’ e la demolizione dei servizi pubblici”, sul “progressivo impoverimento suscitato dall’attacco allo Stato ‘sociale’” – tesi forse discutibili ma non pertanto censurabili? Forse c’è qualcosa di marcio nell’editoria italiana.
Ma Polacchi, si dirà, non ha fatto l’apologia del fascismo e fare l’apologia del fascismo non è reato? Ricolfi, a proposito dei fatti di Torino, ha parlato del “mesto epilogo di una vicenda in cui le ragioni dell’antifascismo e quelle della libertà di opinione hanno finito per trovarsi su opposte sponde”. Va riconosciuto, però, che le “ragioni dell’antifascismo” sono quelle di Sergio Chiamparino, di Chiara Appendino, dell’Anpi, di Federico Pizzarotti e quant’altri, ma non sono quelle della Cassazione che, come riportano Paolo Becchi e Giuseppe Palma ne “La sinistra si rassegni: non c’è reato di apologia” (Libero 9 maggio 2019) ha chiarito, nella prima sezione penale, che “la legge Mancino non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, ma soltanto quelle che possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”.
Insomma – piaccia o no – si è liberi di scrivere che “Mussolini è stato il più grande statista del secolo” e poi affermare disinvoltamente che “il fascismo è il male del secolo”. È una libertà che non va riconosciuta soltanto a Gianfranco Fini.